27 Aprile 2024

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© by Filippo Chinnici e Vanessa D.

Per una singolare “coincidenza” muoiono quasi in contemporanea due degli uomini che detenevano molti dei più importanti segreti della storia recente d’Italia: Giorgio Napolitano e Matteo Messina Denaro.

In questo primo articolo cercheremo di sintetizzare al massimo la figura complessa del primo rinviando ad altra data un articolo su Matteo M. Denaro.

La storia non detta della vita di Giorgio Napolitano s’incrocia spesso con quella di Gesuiti, Massoneria, Servizi segreti e Mafia.

 

Giorgio Napolitano nacque a Napoli il 29 giugno 1925, dal padre Giovanni (1883-1955), avvocato liberale, poeta e saggista, originario di Gallo di Comiziano, e da Carolina Bobbio, contessa di Napoli, discendente di una famiglia nobiliare di origine piemontese, Doria (titolo che da buon comunista Napolitano ha sempre accuratamente nascosto come Berlinguer faceva con il suo titolo di marchese).

La madre era una delle dame di compagnia della regina Marie José del Belgio – italianizzato in Maria Giuseppina di Savoia -, moglie del re d’Italia Umberto II di Savoia.

Giorgio Napolitano fu presidente della repubblica per ben nove anni consecutivi (dal 15 maggio 2006 al 22 aprile 2013 e poi per un secondo mandato, conclusosi nel gennaio 2015) il cui padre Giovanni, secondo Aldo Mola, direttore del centro per la storia della massoneria, fu iniziato nel 1911 alla loggia Bovio-Caracciolo, una delle «officine» più antiche del Grande Oriente d’Italia. Ma la storia massonica e personale di Napolitano è molto più complessa, a partire dalle origini familiari.

Il padre Giovanni Napolitano (1883-1955), avvocato liberale, poeta e saggista, originario di Gallo di Comiziano (Napoli), è stato uno dei più importanti penalisti napoletani. Le sue arringhe sono state raccolte nella biblioteca dell’antico Tribunale di Napoli a Castel Capuano: dodici volumi con le arringhe del professionista, consegnate dal figlio Giorgio (divenuto come il padre praticante avvocato il 7 dicembre 1947), il quale «teneva a tramandare i lavori, i fedeli compagni della vita di suo padre». Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la «fratellanza».

1. Aristocrazia nera

Tra le famiglie dell’aristocrazia nera vi è una famiglia genovese: i Doria a cui apparteneva la madre di G. Napolitano. I Doria si sono diffusi per il resto d’Italia in particolare Napoli, Roma, Piemonte e Sardegna [QUI] [Per il ramo napoletano vedi QUI]

I Doria ebbero dogi, cardinali, ammiragli e ancora adesso sono presenti nella politica con Marco Rossi Doria, già sottosegretario all’Istruzione del Governo Monti dal 2011 al 28 aprile 2013, riconfermato allo stesso incarico dal 2 maggio 2013 al 22 febbraio2014 nel governo Letta, e Marco Doria, sindaco (o dovremo dire doge?) di Genova dal 2012 al 2017, che detiene i titoli di marchese, patrizio genovese e conte di Montaldeo: non male per un iscritto al Partito comunista Italiano che si presenta come uomo del popolo. Ebbene anche Giorgio Napolitano, una delle figure più illustri del Partito comunista italiano (Pci) è legato a questa dinastia, appunto, attraverso la madre. Non bisogna stupirsi di questo perché il “Comunismo” è completamente nato dai progetti dell’Aristocrazia nera proprio come il PD (Partito Democratico) che segue pedissequamente le sue direttive.

Una delle storie più diffuse nel milieu politico – indimostrata e indimostrabile – è che G. Napolitano non sia figlio naturale del celebre avvocato partenopeo massone Giovanni Napolitano, ma aveva ben più nobili ascendenze che non riguardano solo il lato della madre, come già detto un’ava della famiglia Doria, ma anche quello del padre biologico poiché è da più parti additato come il figlio illegittimo del Re d’Italia Umberto II di Savoia, altra famiglia appartenente all’Aristocrazia nera del ramo genovese.

La regina Maria Josè, esasperata dalla folla di amanti del re (in genere donne), a volte gli piazzava rappresaglie gigantesche e se ne andava (notoriamente innamorandosi forse una sola volta di Indro Montanelli, che da gran signore si è sempre rifiutato di discutere l’argomento). In una di queste prolungatissime assenze, la sua dama di compagnia, Carolina Bobbio, lo divenne anche del re d’Italia e dalla cui relazione sarebbe nato, appunto, Giorgio Napolitano.

D’altra parte, la somiglianza tra Vittorio Emanuele II di Savoia e il giovane G. Napolitano, stando alle foto di allora, è davvero impressionante.

Una delle prime persone a diffondere queste “voci” è stato Cristiano Lovatelli Ravarino, un giornalista italoamericano che l’avrebbe appresa dalle confidenze di un vecchio comunista, “Ciro” Sergio Soglia (1926-2003) – grande giornalista e grande partigiano – che gli costò l’elezione a segretario del PCI. Ipotesi riprese pochi anni fa anche da «la Repubblica» (Ermanno Corsi e Piero Antonio Toma, “Quirinale, amori e passione”, «la Repubblica» del 25 febbraio 2015).

E poi, per la cronaca, va detto che tutti e quattro i figli legittimi di Umberto II di Savoia – Vittorio Emanuele di Savoia, Maria Gabriella di Savoia, Maria Pia di Savoia, Maria Beatrice di Savoia –, sono nati tutti a Napoli.

I Savoia amavano Napoli e vi si recavano sempre più spesso, fin quasi a stabilirvisi. E la contessa Carolina Bobbio, madre di Giorgio, futura dama di compagnia della regina, era figlia di piemontesi.

Non sappiamo se questa voce potrà mai essere dimostrata con documenti e G. Napolitano non l’ha mai sostenuta né smentita. Per averne la certezza servirebbe un test del DNA. Tuttavia, appare quanto meno curioso che G. Napolitano nella veste di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, abbia chiesto al CSM informazioni riguardanti il fascicolo personale di Henry John Woodcock, ossia il PM che indagava su Vittorio Emanuele di Savoia. Decisamente uno “strano” interesse il suo…

2. Gesuiti

G. Napolitano, essendo stato per molti anni un dirigente del Pci si è ufficialmente dichiarato ateo, ma pare che non lo fosse secondo il ricordo che ne ha dato l’altro giorno il cardinale Gianfranco Ravasi in odore di massoneria. Tant’è che si è scomodato anche il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, e addirittura persino Bergoglio. Non solo, ma uno degli oratori al suo funerale è stato proprio un cardinale. E che cardinale! Il massone G. Ravasi che già in passato ha manifestato grandi aperture con i suoi fratelli massoni apprezzato ed elogiato dal Grande Oriente d’Italia.

Ha colpito significativamente la visita di Bergoglio in persona che nel rendere omaggio a Napolitano si è raccolto di fronte alla salma senza nemmeno farsi il segno della croce, giungendo a scandaizzare persino laici come Veltroni. Tutte queste vicende confermano alcune voci che vedevano G. Napolitano vicino ai circuiti gesuiti filomassoni, perché questi alti prelati appartengono alla frangia massonica che controlla il Vaticano.

D’altronde, lascia perplessi come mai Papa Benedetto XVI, il massimo esponente della cristianità, abbia scelto proprio G. Napolitano come persona a cui confidare per primo l’idea di dimettersi. Perché? Insomma, Napolitano ha avuto un rapporto privilegiato sia con Papa Benedetto XVI che, ancor di più, con Bergoglio.

Ma facciamo qualche passettino indietro e andiamo a Papa Paolo IV che in gioventù aveva studiato nel collegio Cesare Arici di Brescia, retto dai padri gesuiti, e che in seguito sarà investito dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana che è inferiore solamente alla carica di gran maestro dell’ordine stesso, quando prevista. 

Questo titolo onorifico è stato dato a molti operativi dell’agenda mondialista, tra cui il controverso presidente americano Richard Nixon – noto per lo scandalo del Watergate –, che come diversi senatori americani richiese la consulenza, per questioni politiche, a eminenti gesuiti. Anche Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella, tutti operativi del network, hanno ricevuto tale onorificenza e in qualità di presidenti sono divenuti Gran Maestro dell’Ordine al Merito della Repubblica. Anche Mario Monti è un Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica. Nel 2003 l’eurodeputata Patricia McKenna depositò un’interrogazione parlamentare in merito alle partecipazioni di Mario Monti, allora commissario UE alla competitività, poiché Monti era membro sia della Commissione Trilaterale che del Gruppo Bilderberg, due organizzazioni che operano in ambito finanziario-sociale colluse con il Vaticano e l’aristocrazia nera.

3. Massoneria e servizi segreti

In ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale per Giorgio Napolitano, ed infatti egli è stato l’unico dirigente comunista che nel 1978 – quelli erano gli anni della Guerra fredda e del rapimento Moro –, sia stato invitato negli Stati Uniti, con tanto di interviste del Washington Post, a tenere un ciclo di lezioni presso prestigiosi atenei. Secondo queste interpretazioni, Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla massoneria anglosassone (quindi inglese o statunitense). Una garanzia forte, per gli ambienti atlantici e per quell’intelligence che si è sempre nutrita di rapporti massonici.

Giorgio Napolitano non era un massone qualsiasi, ma fu cooptato nella superloggia internazionale «Three Architects» o «Three Eyes» nell’aprile del 1978 nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti. La superloggia «Three Eyes» ha una forte capacità di fuoco e d’intervento – come «Edmund Burke», «Joseph de Maistre», «Compass Star-Rose» – che è poi quello a cui fa riferimento il famigerato military-industrial complex largamente sospettato per l’omicidio di JFK.

La «Three Eyes» controlla la «Commissione Trilaterale», ma, soprattutto, è una creatura del ricchissimo industriale David Rockefeller, del futuro segretario di Stato Henry Kissinger e del futuro consigliere per la Sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, che nel 1978 sarà il principale artefice – attenzione! – dell’elezione a pontefice del polacco Wojtyła. E non bisogna farsi distrarre, qui, dal fatto che le due carriere siano ufficialmente divergenti, visto che Kissinger diventerà l’uomo forte dell’amministrazione di Richard Nixon, repubblicano, e Brzezinski l’anima del governo di Jimmy Carter, democratico. È semplicemente una specie di gioco delle parti, un ammiccare complice tra barricate apparentemente contrapposte; e, per i profani, un perdersi dentro una stanza di infiniti specchi che è il frutto di un’accorta, sapiente e calcolata dissimulazione. Dalla fine degli anni Sessanta, la «Three Eyes» insieme alla «Edmund Burke» organizza il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia, sostiene il generale Francisco Franco in Spagna, supporta la dittatura di António de Oliveira Salazar in Portogallo, applaude la repressione della Primavera di Praga a opera dei massoni reazionari sovietici e cecoslovacchi affiliati alla Ur-Lodge «Joseph de Maistre». In America latina cura la regia delle spietate dittature militari (e massoniche) che sono il frutto della cosiddetta «Operazione Condor». Nella Cina comunista, e non ancora aperta all’Occidente, riesce ad affiliare Zhou Enlai e Deng Xiaoping, con cui inizia a spartire (già nei primi anni Settanta!) le aree d’influenza politica e i buoni affari economici. Per farla breve: la sua longa manus arriva dappertutto. Italia compresa. Perché l’Italia rappresenta un laboratorio decisivo per attuare una svolta oligarchica dell’Occidente, scrive G. Magaldi.

Secondo lo storico F. Pinotti, il presidente della Federazione russa V. Putin avrebbe consegnato a Berlusconi, quando questi era presidente del consiglio, delle carte compromettenti su G. Napolitano. Queste carte provenienti dagli archivi del KGB, conterrebbero le prove, tra le tante cose, non solo della sua adesione alla superloggia dei Rockefeller ma anche dei rapporti di Napolitano con la CIA. Per anni Napolitano è stato un osservato speciale da parte di Mosca come potenziale infiltrato da parte del mondo americano nel Pci e di conseguenza in un insieme di rapporti che riguardavano anche Mosca. Le carte di Putin su Napolitano, se esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i servizi russi. Materiale per una avvicente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la CIA, il Bilderberg... D’altronde, Napolitano ha avuto intensi rapporti pure con i servizi segreti dell’ex Unione Sovietica e non dimentichiamo che fu uno dei pochi dirigenti del Pci a schierarsi apertamente a favore della repressione sovietica in Ungheria del 1956 di cui conosce in chiave storica tutti i finanziamenti al Pci.

Pertanto, non darei molto peso alle recenti dichiarazioni di Putin su G. Napolitano – post mortem –, in cui lo definisce uno statista e patriota italiano, perché rientra nella recitazione che spetta a un capo di Stato. Si tratta delle classiche dichiarazioni di circostanza da dare in pasto al mondo. La realtà, poi, è molto diversa da quella che appare in superficie.

A. Lo storico viaggio negli Stati Uniti del 1978

G. Napolitano si recherà negli Stati Uniti dal 4 al 19 aprile del 1978. Attenzione a queste date perché vorrei fare notare qualcosa di estremamente importante secondo me. In quei giorni Aldo Moro è in mano alle “Brigate Rosse” (alias CIA?).

A. Moro – che già era stato minacciato nemmeno troppo velatamente da Kissinger per le sue aperture a sinistra –, era stato sequestrato il 16 marzo 1978 e sarà assassinato il 9 maggio 1978. Ebbene cavallo tra queste due date e a sole tre settimane dal sequestro, G. Napolitano farà il suo primo viaggio negli Stati Uniti poiché non vi era mai stato prima di allora. Un viaggio che acquista particolare rilevanza a seguito del fatto che solo tre anni prima gli era stato rifiutato l’ingresso.

Quelli sono anni drammatici per il Paese, dal rapimento di Aldo Moro, ai comunicati delle Brigate Rosse che minavano la solidarietà nazionale; un’Italia piegata da stragi e morti, divisa tra la sofferta linea della fermezza e quella della scelta umanitaria. E Giorgio Napolitano fa il suo primo viaggio negli Stati Uniti proprio in questo periodo. Lo stesso Andreotti, che l’11 marzo 1978 aveva costituito il suo IV governo, un monocolore Dc con una maggioranza programmatica che inglobava anche il Pci, ricorda nei suoi scritti che il viaggio negli Usa di Giorgio Napolitano, membro della segreteria del Pci, aveva delle connotazioni particolari.

Ufficialmente la visita di G. Napolitano negli Stati Uniti è giustificata dal fatto che è stato invitato dal governo per tenere delle lezioni nei vari atenei. Ed effettivamente G. Napolitano parteciperà a un seminario nell’Università di Harvard, organizzato dalla John Hopkins University e dal Centro di studi strategici e internazionali della Georgetown University e altri importanti atenei. Ufficialmente il ruolo di Napolitano, a due anni dall’incontro tra Brzezinski e Giovanni Paolo II, fu di rappresentante dell’eurocomunismo negli USA, il che sostanzialmente significava essere un occulto operativo nell’agenda degli Illuminati tant’è che in seguito, dopo la sua scalata politica prima come membro del Parlamento europeo, poi come ministro degli Interni e presidente della Repubblica, in Italia è divenuto un ennesimo burattino politico, promulgatore del Nuovo Ordine Mondiale. Sarà lo stesso Napolitano a fare insediare Mario Monti a capo del Governo, un altro uomo dei banchieri internazionali, dando inizio a un altro golpe bianco in Italia.

B. Un fatto molto “strano”

Ma facciamo qualche passettino indietro. Andiamo al 1975 quando a G. Napolitano gli viene negato il visto per entrare negli Stati Uniti, come peraltro avveniva per tutti i dirigenti comunisti. Ora, la mia domanda è: com’è possibile che nel 1975 gli Stati Uniti rifiutano l’ingresso a Napolitano e poi solo tre anni dopo, nel 1978, mentre è ancora un dirigente del Pci, sono addirittura le stesse autorità americane ad invitare G. Napolitano negli Stati Uniti? Cos’è accaduto nel frattempo? Come mai questo cambio di rotta? Quanto c’entra – se c’entra -, il rapimento di A. Moro?

La motivazione ufficiale, lo ripeto, sarà quella che G. Napolitano deve tenere delle lezioni presso importanti atenei; ma è solo quella la ragione o si tratta solo di una copertura? È possibile che Napolitano abbia fatto altri incontri che non risultano in agenda? Non lo so. Però, sappiamo che nel 1975, quando gli viene rifiutato l’ingresso negli USA, erano accadute delle cose che in qualche modo lo riguardavano. In effetti erano trascorsi:

  • Quasi venti anni dall’invasione russa in Ungheria nel ’56 con i carri armati a Budapest contribuendo alla pace nel mondo;
  • Sei anni da quando, nel 1969, Napolitano invita i militanti del Pci a «evitare ogni scivolamento sul piano dell’antisovietismo», ribadendo il «valore non solo storico ma attuale della funzione mondiale dell’Urss»;
  • Cinque anni da quando, nel 1970, rifiuta di «spezzare, o anche soltanto indebolire, i nostri legami con gli altri partiti comunisti e operai, e prima di tutto con il Partito comunista dell’Unione sovietica». Nello stesso anno, del resto, riconosce in Lenin «un luminoso punto di riferimento».
  • Solo due anni da quando, nel 1973, aveva definito «non accettabili» e «sciagurate» le tesi dei dissidenti Sacharov e Solgenitsyn. Il livello di doppiezza togliattiana raggiunto dalla dirigenza comunista dell’epoca è comunque tale che già nel 1969 l’ambasciata statunitense a Roma aveva avviato contatti segreti con il Pci in vista di una sua presunta salita imminente al governo.

Insomma, la sensazione è che G. Napolitano sia stato una persona che ha saputo muoversi egregiamente tra gli equilibri internazionali. A livello pubblico e ufficiale è sempre stato fedele al Pci, sostenendo la causa di Togliatti persino nella difesa dell’invasione sovietica di Budapest nel 1956, e poi come “ministro degli Esteri” del Pci. Però, in maniera sommersa ha coltivato relazioni trasversali dall’altra parte della barricata, accreditandosi a più livelli di potere, italiani e internazionali. Se poi sia stato a libro paga dei servizi segreti della ex URSS e della CIA (forse facendo per un po’ il doppiogiochista) non lo sappiamo e non mi pare vi siano elementi per congetturarlo. G. Magaldi sostiene che sia stato proprio in questo viaggio che G. Napolitano sia stato iniziato nella superloggia «Three Eyes» ideata e fondata da David Rockefeller, Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski e di cui facevano o fanno parte anche Gerald Ford e Georges Pompidou, Valéry Giscard d’Estaing e Antoine Bernheim, Henry Ford II e Milton Friedman e gli italiani Gianni Agnelli, Enrico Cuccia, Edgardo Sogno, il principe Borghese.

4. Mafia

Bettino Craxi, che di cose ne sapeva, interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont, definì G. Napolitano «l’ex ministro degli esteri del Pci». I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano con Washington. Insomma, una storia complessa che va dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell’intelligence americana con il visto negato nel 1975, fino addirittura alle aperture dell’ambasciata Usa a Roma e al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel 1978, nei giorni del sequestro Moro… e poi c’è l’altro viaggio non meno misterioso negli Stati Uniti insieme a Occhetto nel 1989 per non parlare dell’incontro festoso, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: “My favourite communist”, «il mio comunista preferito». A cui segue repentina la replica di Napolitano che lo corregge ridendo: «“Il mio ex comunista preferito!”».

Il muro di Berlino è crollato, le dinamiche mondiali sono cambiate e persino la Mafia che dal dopoguerra era stata utile alla CIA in chiave anti-sovietica pare perdere il suo appoggio. Per l’Italia inizia, quasi in contemporanea, l’inchiesta denominata «Mani pulite» che porterà alla fine della prima repubblica, le stragi di Capaci e via D’amelio dove moriranno i giudici Falcone e Borsellino e le loro scorte, il periodo degli attentati… e la così detta «Trattativa Stato-Mafia» che ha visto in prima linea i magistrati Antonio Ingroia, prima, e Nino Di Matteo, dopo, estimatori e collaboratori di Falcone e Borsellino.

Su quella stagione vi è stato un processo e una sentenza. La Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, in primo grado, ha condannato boss mafiosi, ufficiali del Ros e politici. In quel dibattimento vi furono testimonianze autorevoli come quelle dell’ex ministro della giustizia Claudio Martelli che aveva apertamente parlato di una «dialettica bombe-concessioni» che aveva portato a un «cedimento unilaterale da parte dello Stato» e le parole di Giorgio Napolitano – il quale ascoltato in un’udienza straordinaria al Quirinale, il 28 ottobre 2014, aveva detto che «le bombe del 1992 e 1993 furono un “aut-aut” allo Stato, un ricatto a scopo destabilizzante di tutto il sistema». Eppure, prima di testimoniare l’allora Capo dello Stato aveva manifestato diverse resistenze a cominciare dal conflitto di attribuzione senza precedenti contro la Procura di Palermo per la nota vicenda delle intercettazioni tra lui e l’allora indagato Nicola Mancino (assolto in primo grado) che sono state poi distrutte dopo la decisione della Consulta.

A. Falcone e Borsellino

G. Falcone stava indagando su ben 989 miliardi di lire di fondi neri versati dall’URSS al PCI prima di saltare in aria.  Indagini che rischiavano di mandare a monte il piano di Mani Pulite voluto dai poteri anglo-sionisti di cui l’ex presidente della repubblica G. Napolitano era loro interlocutore privilegiato.

Pure l’ex segretario del PCUS, Gorbachev, era vicino a questi ambienti e al Gruppo Bilderberg di D. Rockefeller che aveva deciso che gli anni 90 avrebbero dovuto essere gli anni della globalizzazione e della concentrazione di un potere mai visto nelle mani della NATO che per poter avvenire doveva passare dall’eliminazione del blocco opposto, quello dell’Unione Sovietica.

G. Falcone aveva in programma un viaggio nei primi giorni di giugno a Mosca per continuare la collaborazione con il magistrato russo Stepankov. Non fece in tempo perché salterà per aria poche settimane prima.

Il giudice si stava avvicinando ad una verità scabrosa che avrebbe potuto travolgere l’allora PDS che aveva abbandonato la falce e martello del partito comunista due anni prima nella svolta della Bolognina inaugurata da Achille Occhetto. Il Pci si stava tramutando in una versione del partito democratico liberal progressista molto simile a quella del partito democratico americano. Ed è in questo contesto che vanno lette le visite negli USA di Napolitano e Occhetto.

A Washington sapevano già nel 1978 che l’URSS si sarebbe sciolta da lì a qualche anno, e presumibilmente avevano già deciso che il Pci avrebbe dovuto essere il referente politico per trascinare l’Italia nel girone infernale della globalizzazione. E per farlo era necessario che il Pci si trasformasse.

Il 1992 fu molto di più che l’anno della caccia alle streghe giudiziaria. Il 1992 fu una operazione internazionale decisa nei circoli del potere anglo-sionista che aveva deciso di liberarsi di una classe politica che, seppur con tutti i suoi limiti, aveva saputo in diverse occasioni contenere l’atlantismo esasperato e aveva saputo esercitare la sua sovranità come accaduto a Sigonella nel 1984 e come accaduto anche con l’omicidio di Aldo Moro, che pagò con la vita la decisione di voler rendere indipendente l’Italia dall’influenza di questi centri di potere transnazionali.

Il copione era quindi già scritto. Il pool di Mani Pulite agì come un cecchino. Tutti i partiti vennero travolti dalle inchieste giudiziarie e tutti finirono sotto la gogna mediatica della pioggia di avvisi di garanzia che in quel clima da linciaggio popolare equivalevano a una condanna anticipata.

Il PSI di Craxi fu distrutto così come la DC di Andreotti. Tutti vennero colpiti ma le inchieste lasciarono, “casualmente”, intatto l’allora Pds, ex Pci.

Eppure era abbastanza nota la corruzione delle cosiddette cooperative rosse, così come era nota la corruttela che c’era nel partito comunista italiano che riceveva fondi da una potenza straniera, allora nemica, e poi li riciclava attraverso la probabile assistenza di organizzazioni mafiose. E l’aveva detto più o meno esplicitamente anche Bettino Craxi, ma per A. Di Pietro e il pool di «Mani pulite» era tassativo l’ordine che avevano ricevuto dai servizi di intelligence statunitensi.

 

Questa era l’ipotesi investigativa alla quale stava lavorando Giovanni Falcone e questa era la stessa ipotesi che subito dopo raccolse Paolo Borsellino, suo fraterno amico e magistrato ucciso soltanto 55 giorni dopo a via d’Amelio.

Mai la mafia era giunta a tanto. C’è un unico filo rosso che lega queste due stragi e questo filo rosso porta fuori dai confini nazionali. Porta in quei centri di potere che avevano deciso che tutta la ricchezza dell’industria pubblica italiana fosse smantellata per essere portata in dote alla finanza anglosionista. Questi stessi centri di potere globali avevano deciso anche che dovesse essere il nuovo Pds a proseguire lo smantellamento dell’economia italiana attraverso la sua adesione alla moneta unica. E fu effettivamente così, salvo la parentesi berlusconiana del 94 che cercò di opporvisi ma senza successo essendo facilmente ricattabile. Il Pds portò l’Italia sul patibolo dell’euro e di Maastricht e privò della sovranità monetaria il Paese agganciandola alla moneta unica, arma della finanza sionista internazionale.

Falcone e Borsellino sapevano che il fenomeno mafioso non poteva essere compreso se non si guardava al piano superiore, che era quello costituito dalla massoneria e dal potere finanziario. Il motto era sempre «Segui i soldi!». Cosa Nostra e le altre organizzazioni sono solamente della manovalanza di un potere senza volto molto più potente.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati assassinati perché si opponevano a ciò che il Nuovo Ordine Mondiale aveva deciso per l’Italia.

B. L’ex magistrato Carlo Palermo

Carlo Palermo già sostituto procuratore a Trento dal 1975 fino al 1984 e poi a Trapani fino al 1989 è sopravvissuto a un attentato di mafia a Pizzolungo, frazione di Trapani, con l’esplosione di autobomba in cui il magistrato rimase ferito solo perché al momento dell’esplosione la sua auto stava superando una vettura su cui si trovavano Barbara Rizzo e i suoi due piccoli gemelli Salvatore e Giuseppe Asta che stava accompagnando a scuola, che morirono dilaniati, investiti in pieno dall’esplosione. Carlo Palermo parla di G. Napolitano nel suo libro «La Bestia: Dai misteri d’Italia ai poteri massonici che dirigono il Nuovo Ordine Mondiale» che non gli fu di aiuto nel compiere le indagini, scrivendo testualmente:

«Tento di parlare con un’autorità forse a conoscenza del Lodo Moro: il presidente della Repubblica in carica, Giorgio Napolitano. Lo avevo conosciuto nel 1992 quando venni eletto deputato per il partito La Rete. Allora lui era presidente della Camera e fu anche apparentemente assai gentile. Spinto dalle nuove stragi, gli avevo chiesto di darmi copia degli atti compiuti dalla Commissione inquirente (l’organo competente a giudicare sui reati compiuti da ministri) a seguito della denuncia che avevo fatto contro l’allora presidente del Consiglio, l’onorevole Bettino Craxi. Era il 10 settembre 1992. Mi rispose che gli atti erano «segreti», e che… avrei dovuto «attendere i termini stabiliti dalle leggi sugli archivi di Stato: settant’anni». Insistetti adducendo la mia qualità di parte offesa e infine ottenni «copia delle pronunce di archiviazione della Commissione inquirente e i verbali delle sole udienze pubbliche».

5. Trattativa Stato-mafia e le telefonate «top secret»

Durante l’inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia nel biennio nero della nostra Repubblica (1992-93) un politico cerca conforto da Giorgio Napolitano. È Nicola Mancino, esponente vicino a Ciriaco De Mita, irpino come lui, reduce da trent’anni di vita parlamentare. Entrato al Senato nel 1976 dopo un biennio da presidente della Regione Campania, nella Seconda repubblica Mancino è rimasto schierato con l’ala del Ppi contraria all’alleanza con Berlusconi. È stato presidente del Senato nella XII Legislatura, quella che ha visto insediarsi il governo Prodi con Napolitano ministro degli Interni. Ha abbandonato il seggio nel luglio del 2006 dopo che il parlamento, in seduta plenaria, lo ha eletto vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Ha collaborato con il capo dello Stato Giorgio Napolitano, membro di diritto e presidente del Csm, per i quattro anni di durata del mandato.

Nel novembre del 2011 Mancino, preoccupato per la piega che ha preso l’indagine di Palermo, contatta il Quirinale allo scopo di far avocare il fascicolo, sia pure dietro la richiesta di un «coordinamento» con la Procura di Caltanissetta, impegnata nella nuova inchiesta sulla strage di via D’Amelio. Dopo aver scoperto, grazie al collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, il depistaggio di Stato che aveva accreditato il falso pentito Vincenzo Scarantino, i pm nisseni hanno ottenuto rinvii a giudizio e condanne di nuovi presunti colpevoli. Ma, a differenza di quanto accaduto a Palermo, non hanno ravvisato responsabilità politico-istituzionali.

Mancino è da tempo in difficoltà per l’amnesia sull’incontro del 1° luglio 1992 con Paolo Borsellino presso il ministero degli Interni, dove si era appena insediato al posto di Vincenzo Scotti. Mancino nega di aver convocato il procuratore di Marsala e non ricorda di averlo incontrato. Sul taccuino di Borsellino risulta invece un incontro al Viminale proprio con Mancino, tanto che fu costretto a interrompere l’interrogatorio del pentito Gaspare Mutolo che gli aveva appena rivelato due nomi pesanti: il numero tre del Sisde Bruno Contrada e il pm del maxiprocesso Domenico Signorino (morto suicida il 3 dicembre 1992). Borsellino venne accolto dal capo della polizia Vincenzo Parisi e da Contrada, che mostrò di sapere del colloquio riservato con Mutolo. Il collaboratore di giustizia riferisce che al ritorno il magistrato era sconvolto, aveva acceso due sigarette contemporaneamente: l’interrogatorio fu rinviato al 17 luglio. Alla moglie Agnese, Borsellino disse di aver sentito «odore di morte».

Mancino teme ciò che si verificherà in seguito: l’iscrizione sul registro degli indagati a Palermo per falsa testimonianza in merito ad alcune dichiarazioni discordanti. Per esempio, non ricorda che l’allora guardasigilli Claudio Martelli gli avrebbe segnalato l’esistenza della trattativa con gli «uomini d’onore». Secondo i pm di Palermo sarebbe stato il ministro per gli Affari straordinari del Mezzogiorno Calogero Mannino a contattare i vertici del Ros dei carabinieri affinché aprissero un dialogo con i corleonesi dopo la strage di Capaci. Nel 2007 il figlio del sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, confidando al procuratore aggiunto Antonio Ingroia l’attività di mediatore del padre per conto di Cosa nostra e consegnando il papello con le richieste allo Stato, aveva delineato i contorni di una serie di contatti, scoperti a suo tempo dal pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che «avevano tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”».

Secondo la Procura di Palermo, anche il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro potrebbe aver ceduto ai ricatti dei corleonesi e dei mandanti occulti delle stragi che proseguivano nel 1993 in continente. In questo clima si inserisce, nel novembre di quell’anno, la decisione del nuovo ministro della Giustizia Giovanni Conso di non rinnovare la proroga del carcere duro (41 bis) per 334 mafiosi, su input di Francesco Di Maggio, neo vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). I pm indicano in Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia e braccio destro di Berlusconi, il nuovo referente in luogo dei trattativisti della sinistra Dc, mentre Bernardo Provenzano avrebbe ottenuto una sorta di impunità duratura in cambio della cessazione degli attentati e, prima ancora, della cattura di Salvatore Riina nel gennaio 1993. Il covo di via Benini a Palermo, altra anomalia, non fu perquisito dal Ros dopo l’arresto di Totò Riina e quindi venne ripulito dai mafiosi.

Dal novembre del 2011 Nicola Mancino comincia a tempestare di chiamate uno stretto collaboratore del Quirinale, responsabile degli affari dell’amministrazione della giustizia. Si tratta del magistrato Loris D’Ambrosio, già al fianco di Giovanni Falcone e all’epoca delle stragi vicecapo di gabinetto del guardasigilli Conso. Le telefonate vertono su alcune vicende oscure di quel periodo. Dopo aver espresso le sue perplessità sulla nomina di Di Maggio alla direzione dell’amministrazione penitenziaria, il collaboratore di Napolitano confida a Mancino: «C’erano due manovre a tenaglia… Questo era un discorso che riguardava l’alleggerimento del 41 bis: Mori, polizia, Parisi, Scalfaro e compagnia; per la parte invece dei colloqui investigativi, un po’ come dire sconsiderati, c’erano Di Maggio, Mori e compagnia».

Nicola Mancino è preoccupato per la propria condizione. Il 7 dicembre 2011, dopo essere stato interrogato dai pm di Palermo, chiama nuovamente l’uomo di G. Napolitano:

  • Mancino: «Non è possibile che queste cinque persone, dal capo della procura all’aggiunto e altri tre sostituti stanno dietro questi fatti senza venirne a capo».
  • D’Ambrosio: «Che vuole fare, qui si va verso il nulla ogni volta. Ogni tanto esce qualcuno… con un pezzo di memoria».
  • Mancino: «La tesi prevalente è che Scotti è stato eliminato perché scomodo. E là ci è andato uno per fare la trattativa. E no, questo disonora una persona, che sarà uno solo su sessanta milioni di abitanti, ma questo uomo solo ha diritto a una tutela. Oggi ho presentato in procura la querela nei confronti del fratello [Salvatore Borsellino, nda]».

Nei mesi successivi Mancino continua ad aggrapparsi, tramite D’Ambrosio, al presidente della Repubblica per arrivare all’avocazione del fascicolo ai pm di Palermo. Il 12 marzo 2012 le chance sembrano scarse:

  • D’Ambrosio: «Io ho parlato con il presidente e ho parlato anche con Grasso».
  • Mancino: «Sì».
  • D’Ambrosio: «Ma noi non vediamo molti spazi, purtroppo, perché non… adesso probabilmente il presidente parlerà con Grasso nuovamente… eh… vediamo un attimo anche di vedere con Esposito [Vitaliano Esposito, procuratore generale della Cassazione] … qualche cosa… ma non…. la vediamo difficile insomma la cosa ecco […]. Dopo aver parlato col presidente riparlo anche con Grasso e vediamo un po’… lo vedrò nei prossimi giorni. Però, lui, lui proprio oggi dopo avergli parlato, mi ha detto: “Ma sai, io non posso intervenire”. Capito, quindi, mi sembra orientato a non intervenire. Tant’è che il presidente parlava di… come la Procura nazionale sta dentro la Procura generale, di vedere un secondo con Esposito».
  • Mancino: «Ma io Esposito l’ho sempre ritenuto molto debole, non è forte».
  • D’Ambrosio: «Però se ne sta andando fra un mese, quindi sa…». Mancino: «Ma figuriamoci, ma…».
  • D’Ambrosio: «Però, ecco, questo è quello che vede il presidente, adesso evitare il contrasto».

Il 19 aprile il nuovo procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani convoca il procuratore antimafia Piero Grasso, che spazza via le speranze di Mancino, precisando «di non avere registrato violazioni del protocollo […] tali da poter fondare un intervento di avocazione».

Il 27 giugno 2012, dopo lo scoop di «Panorama» sull’esistenza di dialoghi tra Napolitano e Mancino intercettati sull’utenza di quest’ultimo, l’Avvocatura dello Stato chiede lumi al procuratore di Palermo Francesco Messineo, che garantisce l’irrilevanza delle conversazioni, dunque la distruzione a norma di legge. È quel «a norma di legge» a preoccupare il Colle: i pm non possono incenerire le bobine con la voce del presidente, nella fattispecie quattro telefonate, in quanto spetta al gip la decisione previo lettura del contenuto alle parti che potrebbero invece considerarle utili.

Mentre infuria la polemica e D’Ambrosio si difende sui giornali che pubblicano i suoi colloqui con Mancino, il 16 luglio Napolitano firma il decreto che solleva il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato contro la Procura di Palermo: «Le intercettazioni delle conversazioni cui partecipa il presidente della Repubblica, ancorché indirette e occasionali, sono invece da considerarsi assolutamente vietate e non possono, quindi, essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione». Eppure la voce di Napolitano era già stata registrata nel 2009 dalla Procura di Firenze sulla linea del capo della Protezione civile Guido Bertolaso, indagato nell’inchiesta sui grandi appalti del G8 all’isola La Maddalena. Il presidente gli chiedeva notizie sulle vittime del terremoto e si preparava a una visita ufficiale. Il cd-rom non è di alcun interesse giudiziario ma è stato comunque conservato, a disposizione delle parti.

Il 26 luglio 2012 Loris D’Ambrosio muore d’infarto nel suo studio romano. Napolitano, che aveva respinto solo una settimana prima le sue dimissioni, diffonde questo comunicato: «Insieme con l’angoscia per la perdita gravissima che la presidenza della Repubblica e la magistratura italiana subiscono, atroce è il mio rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità di magistrato intemerato, che ha fatto onore all’amministrazione della giustizia del nostro paese».

In seguito Napolitano rende pubblico un carteggio scambiato con D’Ambrosio. Nella missiva del 18 giugno il collaboratore del Quirinale faceva riferimento a un testo scritto per il libro di Maria Falcone: «Lei sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi […]. Non le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all’Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo e di aver desiderato di tornare anche io a fare indagini».

Il 4 dicembre 2012 la Corte costituzionale accoglie la richiesta di distruggere le quattro telefonate della discordia, assicurando che «il presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione».

Vi sarebbe tanto, tantissimo altro, da dire ancora, ma questo primo articolo può bastare per dare un’idea di quello che approfondiremo nei prossimi articoli.

 

2 thoughts on “La storia non detta di Giorgio Napolitano

  1. Che matassa ! Solo chi abbia una ampia conoscenza della cronaca e della storia riesce a dipanarla, complimenti ! Grazie 🙏

  2. Molto interessante ed avvincente. Sono interessato a leggere gli ulteriori aggiornamenti, visto che fanno parte della storia italiana!

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