27 Luglio 2024

Articolo basato sulle ricerche di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, “Il golpe inglese”.

 

Il 17 dicembre, il quotidiano “La Repubblica” di proprietà dei sionisti aschenaziti Elkann (il braccio dei Rothschild in Italia) pubblica un bel paginone in cui si cerca di infamare la grande figura di Enrico Mattei, simbolo indimenticato  dell’Italia sovrana.

Che dietro la morte di E. Mattei vi sia la mano della CIA, ormai sembra accertato. Eppure, il quotidiano “La Repubblica” diventa strumento per uccidere di nuovo Mattei.

Le mani inglesi sull’Italia

Sin dal Risorgimento, attraverso il suo braccio massoniconanziario e la sua rete d’intelligence, Londra esercita sull’Italia un’influenza fortissima sull’aristocrazia, la politica, le forze armate, l’industria privata, l’informazione e la cultura. In virtù di tale autorità, contribuisce all’ascesa del fascismo e al suo consolidamento. Salvo poi provocarne la crisi, quando nel regime si manifestano tendenze a una politica energetica nazionale che minacciano gli interessi britannici, e la sua caduta quando Benito Mussolini, una «creatura» inglese a partire dal 1917, tradisce i vecchi padroni finendo per schierarsi al fianco della Germania nazista nella seconda guerra mondiale.

Nell’ultima fase del conflitto, quando le sorti volgono decisamente a favore degli Alleati (perché dispongono di abbondanti risorse petrolifere, mentre quelle dell’Asse inizialmente alimentate iniziano a scarseggiare perché i Rockfeller chiudono i rubinetti) gli inglesi pensano già al dopo, alle nuove battaglie da combattere a partire dal 1945. E rafforzano la rete di influenza in Italia inglobando nella loro intelligence ambienti mafiosi e repubblicani, il cui apporto alla causa britannica sarà decisivo nei decenni a seguire. Conclusa la guerra, a differenza degli americani, Londra non considera gli italiani un popolo che ha combattuto per la propria liberazione dal nazifascismo al fianco degli Alleati, ma piuttosto come una nazione sconfitta. E dunque soggetta alle leggi dei vincitori. Il nostro Paese non può avere un regime pienamente democratico. Non può provvedere autonomamente alla propria sicurezza. E, soprattutto, non deve seguire una linea di politica estera basata su un proprio interesse nazionale. Quei divieti segreti, imposti nel 1945 dalla dottrina del leader conservatore Winston Churchill, vengono poi di fatto recepiti nel trattato di pace del 1947 e nelle clausole dell’Alleanza atlantica nel 1949: coperti da un manto di ipocrisia e di indicibilità, condizioneranno i rapporti tra i due Paesi lungo l’intero arco della guerra fredda. E persino dopo la caduta del Muro di Berlino.

Nel dopoguerra, la storia dei conflitti invisibili tra Roma e Londra si snoda lungo un sentiero strettissimo. Delimitato, da un lato, dalle strategie di una gran parte della classe dirigente italiana, desiderosa di entrare a pieno titolo nel gioco delle grandi potenze economiche; dall’altro, dalla dottrina Churchill, con le sue successive rielaborazioni. La scaltrezza e le astuzie di una nazione bisognosa anch’essa di espandere i propri mercati e di affrancarsi dalla dipendenza energetica si scontra quindi con il cinismo e le furbizie di Sua Maestà britannica. In questa partita a scacchi all’ultimo sangue, si misurano così le aspirazioni di un Paese giovane – che è pronto a sfruttare ogni varco, ogni occasione per emergere –, con gli interessi di una gloriosa potenza coloniale in declino, che mette in campo la sua rete d’influenza e le sue quinte colonne, sempre pronte a scattare al minimo segnale di pericolo. È una storia che corre continuamente sulla lama di un rasoio. Chiunque, nel ceto politico o industriale italiano, osi disubbidire alle regole segrete della dottrina Churchill, si chiami Enrico Mattei o Aldo Moro, è considerato dagli inglesi alla stregua di un nemico mortale. Da combattere con ogni mezzo.

Il caso Matteotti, l’Agip e Mussolini

È ormai accertato che Mussolini intretteneva rapporti con i servizi segreti di Londra. Nel gennaio del 1918, subito dopo la disfatta italiana a Caporetto, il diplomatico inglese Samuel Hoare apre a Roma una sede dell’MI5 (Military Intelligence, Sezione 5, ovvero l’agenzia britannica per la sicurezza e il controspionaggio). Con una missione molto precisa: spostare l’opinione pubblica italiana dalla parte delle potenze alleate che combattono contro gli imperi centrali, reclutare uomini politici e giornali e tenere d’occhio i filo tedeschi (tra questi ultimi, come risulta da decine di rapporti inviati a Londra da Hoare, c’è anche il cardinale Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII).

Nella fase finale della prima guerra mondiale i servizi britannici foraggiano abbondantemente uomini di partito, direttori di giornali e giornalisti perché conducano una campagna di stampa a favore di Gran Bretagna e Francia. E tra costoro c’è anche Benito Mussolini, ex esponente di punta del Partito socialista, che percepisce 100 sterline alla settimana da SirHoare. Churchill evidentemente sa che il duce è un uomo degli inglesi. Di più: è un suo ammiratore e intrattiene con lui intensi rapporti epistolari. Ne favorirà l’ascesa al potere per contenere non solo il pericolo social-comunista in Italia, ma anche quello bolscevico in Europa. E non esita, in seguito, all’epoca in cui il regime fascista è nel pieno del suo splendore, a esprimergli pubblicamente tutta la sua ammirazione, denendolo il «salvatore dell’Italia» e «il più grande legislatore vivente».

Quando nell’aprile del 1924 Matteotti si reca in gran segreto a Londra per incontrare i laburisti, i Tories sono all’opposizione. È assai probabile che gli uomini dell’intelligence vicini ai conservatori apprendano che il deputato socialista è ripartito dalla Gran Bretagna con le prove sulle tangenti pagate in Italia dall’americana Sinclair Oil, e che utilizzerà quelle carte in parlamento contro Mussolini. Churchill, dunque, non può consentire che il regime italiano rischi di cadere, travolto dalle carte di Matteotti, compromettendo anche la politica petrolifera inglese (di cui lo statista è uno dei grandi strateghi sin dai primi del Novecento).

Intanto la britannica Anglo-Persian Oil Company (Apoc) ha messo in piedi il suo progetto di assalto al mercato italiano. Puntando in due direzioni. Da un lato, l’obiettivo è l’americana Standard Oil. Dall’altro la stessa Italia, o meglio: quella parte meno «anglofila» del regime che comincia a scommettere su una politica energetica autonoma attraverso la costituzione di un ente petrolifero nazionale. Un disegno pericoloso quanto la presenza degli Usa, per gli interessi britannici nel Mediterraneo e in Medio Oriente, e che Londra tenta di contrastare in tutti i modi attraverso le sue quinte colonne italiane.

Subito dopo l’assassinio di Matteotti, tra Roma e Londra si instaura un feeling straordinario. Churchill, che nel frattempo è diventato cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro delle Finanze, ammira a tal punto Mussolini che nel 1927 vuole addirittura incontrarlo in Italia. Da quel momento, fra i due statisti inizia un intenso rapporto epistolare che durerà anche nel lungo periodo (1929- 1939) in cui il politico britannico non ricoprirà alcuna carica di governo, fino alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Intanto, dopo aver consentito la liquidazione della Direzione generale dei combustibili, nel 1926 il governo italiano fonda l’Agip per soddisfare le aspirazioni a una politica energetica nazionale che continuano comunque ad alimentare i progetti e i sogni di una parte del regime. Aspirazioni talmente forti, e rispondenti a esigenze di sviluppo economico e di natura militare, da non poter essere certo ignorate. Al contempo, su iniziativa di un gruppo di finanzieri privati inglesi che gravitano attorno a Churchill, nel 1928 viene fondata la British Oil Development Company (Bodc), una società destinata a gestire l’estrazione petrolifera mediorientale coinvolgendo altre compagnie europee. E tra queste figura anche l’Agip. L’Agip entra nella Bodc con propri capitali. E l’Italia comincia a definire una sua politica, in vista anche della cessazione dei mandati francobritannici in quell’area. Roma appoggia la richiesta dell’Iraq, ancora sotto l’influenza britannica, di entrare nella Società delle Nazioni. E, così facendo, provoca l’irritazione inglese.

Nell’aprile del 1932, comunque, la Bodc stipula una convenzione petrolifera con l’Iraq. La società britannica ottiene una concessione per 75 anni e subito fonda una nuova società, la Mosul Oil Fields, in cui entra anche l’Agip. Con il petrolio sovietico e con quello iracheno, Mussolini vede finalmente a portata di mano la possibilità di costruire quella potente macchina bellica per la realizzazione dei suoi progetti imperiali: la conquista dell’Etiopia. Ma forse non ha fatto bene i conti con la «perfidia» inglese.

Mentre il duce già accarezza i suoi sogni di gloria, Londra sta già predisponendo le contromosse per ridimensionarli. I soci dell’Agip nella Bodc e nella Mosul Oil Fields, attraverso una serie di manovre dilatorie, tendono a ritardare all’infinito il pagamento delle somme dovute agli iracheni per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi con l’obiettivo di indurre Baghdad ad annullare la convenzione. Ma quando il duce se ne accorge, è ormai troppo tardi. La guerra etiopica è già iniziata, la macchina bellica richiede risorse e il governo non è più in grado di concedere all’Agip i fondi che metterebbero la nostra azienda di Stato non solo nella condizione di onorare i propri impegni con gli iracheni, ma addirittura di rilevare altre quote del pacchetto azionario della Mosul Oil Fields, conquistando una posizione di forza. Un rifiuto, quello del governo di Roma, del tutto privo di senso.

Intanto, Gran Bretagna e Stati Uniti si contendono il Medio Oriente. Il conflitto sotterraneo combattuto in Italia all’epoca del delitto Matteotti tra le americane Standard Oil e Sinclair Oil dei Rockefeller da una parte, e la britannica Anglo-Persian Oil Company (Apoc) dei Rothschild dall’altra, minaccia ora di riprodursi in Medio Oriente. E la ragione non è solo di natura economica.

 Da Matteotti e Mattei

Nel 1943, l’Italia è un Paese in via di dissoluzione. Persino Ciano è stato udito fare commenti positivi sulle potenze anglosassoni. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo vota la sducia a Mussolini con un ordine del giorno presentato da Dino Grandi e approvato anche da Ciano e De Bono (il protettore di Dumini, sicario di Matteotti). In realtà Londra ha organizzato un doppio golpe: un primo, attraverso gli uomini nell’entourage di Mussolini, i quali sperano di uscire da quella situazione salvando il «buono» che c’è nel fascismo; un secondo, attraverso gli uomini legati ai Savoia, con un obiettivo ben diverso: liquidare il fascismo, salvare la monarchia e costringere l’Italia alla resa. Insomma, è la solita politica del «doppio binario» adottata dai britannici, in parte frutto di loro contrasti interni e dei conitti con gli alleati americani (come vedremo meglio più avanti); e in parte dovuta alle ambizioni «neocoloniali» segretamente covate nei confronti del nostro Paese. Intanto, il re Vittorio Emanuele III affida la guida del governo al maresciallo Badoglio.

La situazione del petrolio continua a provocare forte ansietà alla Germania e i bombardamenti alle fonti petrolifere tedesche compromettono la capacità di continuare la guerra. La macchina bellica di Hitler e Mussolini è a corto di carburante. Il contesto è tale che i destini della guerra sono di fatto già segnati, anche se il conflitto in Europa andrà avanti ancora per un anno e mezzo. Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica hanno conquistato una schiacciante superiorità strategica perché controllano ormai gran parte delle fonti di approvvigionamento energetico. Germania nazista e Repubblica sociale italiana, invece, sono allo stremo perché i tentativi di raggiungere con le loro armate i pozzi petroliferi del Medio Oriente e del Caucaso sono stati respinti.

Nel marzo del 1944 la guerra è virtualmente conclusa con la vittoria degli Alleati, ma si continua a combattere una lunga battaglia di posizione, in vista dei futuri conitti tra l’Occidente e l’Unione Sovietica, nonché tra gli inglesi da una parte e il comunismo e l’Italia repubblicana dall’altra. Dal punto di vista britannico non è tanto il duce ad aver perso, ma l’Italia, nonostante lo status di nazione «cobelligerante» al anco delle potenze alleate a partire dall’ottobre del 1943 e la partecipazione del fronte antifascista alla guerra di Liberazione.

Ma a Londra sanno benissimo che, per esercitare il pieno controllo sulle rotte marittime nel Mediterraneo e verso il Mar Rosso, è necessario avere il pieno dominio anche dell’Italia, considerata la sua posizione geograca. E pur mantenendo come carta di riserva il separatismo siciliano per costruire un eventuale triangolo strategico con le isole di Malta e di Pantelleria, è all’intera penisola che punta il governo britannico.

Per, Israele e Usa insidiano la supremazia britannica perché la situazione nello scacchiere mediorientale finisce inevitabilmente per riflettersi sui rapporti tra gli Alleati in Italia. A inasprirli, data l’importanza della posta in gioco, è da un lato lo Stato ebraico che sorgerà nel maggio del 1948, e dall’altro la crescita dell’inuenza americana anche nel nostro Paese.

E così l’Italia diventa il campo di battaglia dei servizi di Gran Bretagna, Urss e Vaticano. Le mosse inglesi in Italia, soprattutto quelle occulte, che puntano a salvaguardare gli interessi di lungo periodo della Corona, sono monitorate dall’intelligence americana che prepara un lungo rapporto sulla «guerra segreta» nel nostro Paese tra il 1946 e il 1947, documento in cui si presta una particolare attenzione ai «giochi» dei servizi britannici con quelli sovietici e vaticani.

Di fronte alla minaccia espansionistica sovietica, secondo l’analisi dell’intelligence Usa, l’Inghilterra non rappresenta una garanzia. L’egemonia economica e politica di Londra sull’Italia garantirebbe solo «la sopravvivenza inglese», ma non la sicurezza dell’Occidente «nel bacino mediterraneo e nel Vicino Oriente, gli unici bastioni contro le mire russe».

Sconfitta in guerra, ammessa al tavolo della pace ma solo con lo status di cobelligerante al fianco delle potenze vincitrici, umiliata da un trattato con clausole «aggiuntive» che ne limitano l’autonomia politica all’interno e all’esterno dei propri confini, nel 1953 l’Italia prova a rialzare la testa. Quell’anno, infatti, nasce l’Ente nazionale idrocarburi (Eni), un’azienda di Stato finalizzata allo sfruttamento delle risorse energetiche. Il suo artefice, Enrico Mattei, irromperà prestissimo sulla scena nazionale e internazionale con la forza di un uragano e, di fatto, con i poteri di un capo di governo. Una novità al di fuori di ogni immaginazione per gli inglesi i quali mal sopportano l’idea che un Paese di straccioni cerchi autonomamente energia per la propria industria e per il benessere della propria gente, e che tratti con altri stati senza chiedere il permesso a Londra, la capitale di un impero coloniale che non intende rassegnarsi a un destino di decadenza. Altri sono i progetti britannici immediatamente dopo la resa del nazifascismo e la vittoria nella seconda guerra mondiale.

I regnanti filofascisti e filoinglesi di Casa Savoia sono ormai in esilio, l’Italia è una repubblica. La vittoria del fronte anticomunista alle elezioni del 18 aprile 1948 ha collocato il Paese più vicino all’America e al fronte europeo filoamericano che alla Gran Bretagna. A Washington è stato firmato il Patto atlantico, la Nato si è già insediata. Sul mondo è calata la cortina di ferro, è iniziata la guerra fredda. Il nuovo presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, ha enunciato la sua dottrina, che assegna a Washington la leadership mondiale nella lotta al comunismo sovietico.

Le difficoltà nel Vicino Oriente sono acuite dai sentimenti antibritannici che dilagano in tutta l’area. A Londra non temono solo che l’Italia riesca a espandere la propria influenza nel Vicino Oriente. Ora l’attenzione si concentra anche su una novità che l’intelligence non ha previsto: la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi in Sicilia e di gas nella valle del Po, e la nascita dell’Eni, un ente pubblico creato proprio per lo sfruttamento di quelle risorse. Nell’isola, compagnie britanniche e americane stanno già effettuando sondaggi con l’autorizzazione del governo regionale, e la presenza dello Stato attraverso il nuovo ente pubblico è vista come una minaccia. Dalle compagnie angloamericane, certo, ma anche da quelle private italiane, le stesse che hanno importato il petrolio persiano rompendo l’embargo: evidentemente, le pressioni britanniche su di loro hanno ottenuto l’effetto sperato. «L’Eni è un ente autonomo e gode di poteri nanziari al di fuori del controllo del parlamento» lamenta il nuovo ambasciatore inglese a Roma, Ashley Clarke, in una lettera a Eden del 4 dicembre 1954.

Le ambizioni di Mattei

L’uomo che più di ogni altro in Italia ha contribuito al rovesciamento della situazione è un personaggio con cui gli inglesi hanno già avuto a che fare durante la guerra: non abbastanza però da valutarne le capacità e quindi il potenziale pericolo. È Enrico Mattei, classe 1906, un marchigiano di umili origini che ha compiuto il proprio apprendistato politico in epoca fascista ma si è poi riscattato durante la Resistenza guidando i partigiani democristiani. Nel 1946 è stato eletto all’Assemblea costituente. Poi ha abbandonato l’impegno politico diretto per assumere la presidenza dell’Eni nel 1953. In poco più di tre anni, ha trasformato l’ente petrolifero in una potenza.

I servizi inglesi hanno occhi e orecchie puntati su di lui: vogliono capire dove voglia arrivare e, soprattutto, quanto sia in grado di nuocere agli interessi dei loro burattinai. Il primo gennaio 1957 arriva al Foreign Office un lungo rapporto da Roma in cui si ricostruiscono l’attività dell’Eni e il prolo del suo presidente.

L’Ente petrolifero di Stato, c’è scritto, ha allargato le sue mire anche all’industria della chimica, dei fertilizzanti e della gomma sintetica. Ha l’esclusiva dei diritti estrattivi nell’area padana e ha conquistato una posizione privilegiata in altre zone del Paese, Sicilia compresa. Ha ottenuto concessioni in Venezuela e nel Vicino Oriente. In Egitto, per esempio, sfrutta i pozzi del Sinai che, «se ben gestiti, potrebbero produrre 4 milioni di tonnellate di petrolio all’anno».

Nel campo degli idrocarburi, Mattei «esercita da anni un potere assoluto in Italia. Giacché il parlamento monitora poco le sue attività, egli utilizza l’Eni per nanziare la corrente “Iniziativa democratica” di Amintore Fanfani, che dal 1954 controlla l’apparato organizzativo della Dc».

Mattei, però, «è andato oltre». Ha fondato il quotidiano milanese «Il Giorno», finanzia la testata di destra «Il Tempo», quella locomunista «Paese Sera» e l’organo socialista «Avanti! ». «Si tratta di quotidiani che, nel corso della recente crisi di Suez, si sono opposti alla strategia anglofrancese e hanno spinto anché il governo italiano adottasse una politica filoaraba. “Il Giorno”, in particolare, ha chiesto apertamente che l’Italia subentri a Gran Bretagna e Francia nel Vicino Oriente.» Gli obiettivi di Mattei? «Sono molto chiari. Egli intende innanzitutto dominare la distribuzione dei prodotti petroliferi in Italia e, in un secondo momento, assicurarsi scorte sufficienti di greggio tramite fonti direttamente controllate dall’Eni. Per assicurarsi le fonti indipendenti di greggio è capace di utilizzare ogni mezzo».

Non sembra avere ambizioni parlamentari, «almeno per ora». Tuttavia, «per amor proprio, potrebbe presto diventare l’eminenza grigia della politica italiana. Durante la crisi di Suez, la sua influenza politica è emersa in modo chiaro. Anche in passato, tuttavia, la sua posizione di finanziatore della Dc gli ha fornito un potere teoricamente formidabile». Al momento lo esercita per realizzare «una qualche forma d’intesa tra l’ala sinistra della Dc e il partito socialista» e si sta muovendo per «affrancare la Dc dal supporto finanziario degli industriali settentrionali», una scelta che si inquadra nella sua visione dell’interesse nazionale «che è del tutto opposta a quella promossa dalle imprese private». In conclusione, «Mattei è un uomo vanitoso, con modi da dittatore. A differenza di molti esponenti democristiani, non sembra essere corrotto a livello personale. Vive in maniera tutto sommato modesta. Il suo unico svago è la pesca, un passatempo che lo coinvolge persino più dei suoi interessi petroliferi (non ci pensa due volte, ad esempio, a volare in Alaska per una battuta di pesca della durata di una settimana). Così come il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, del quale è molto amico, Mattei si trova al momento nelle condizioni di fare un gran bene – o un gran male – all’Italia». (Fo371/130402)

Già, un gran bene o un gran male, a seconda del punto di vista dal quale si osserva la situazione. Perché è del tutto evidente che ciò che è bene per Londra non può esserlo per Roma, e viceversa. «Mattei è stato molto franco con me: è determinato a conquistare una posizione internazionale come produttore di petrolio, non limitandosi ai conni geograci dell’Italia» scrive l’ambasciatore Clarke in una lettera inviata al Foreign Office il 9 marzo 1957.14 Detto fatto. L’evento tanto temuto si verica neppure due settimane dopo. E ne dà conferma un alto funzionario dell’ambasciata di Sua Maestà a Washington, J.E. Coulson, con un telegramma inviato al ministero degli Esteri britannico il 21 marzo: «La compagnia nazionale del petrolio iraniano, la National Iranian Oil Company (Nioc), ha raggiunto un accordo con l’Agip per tre concessioni petrolifere in Iran. […] Il governo iraniano riceverà il 75 per cento dei protti, l’Agip il 25 per cento».

«Mattei punta in alto. A nostro parere, è un manager tosto e un uomo potente nonché pericoloso» commenta gelido Denis Wright, del Foreign Office, nella risposta inviata il giorno dopo all’ambasciata di Washington. La notizia della violazione delle regole basate sul «fty-fty» imposto dalle compagnie angloamericane, benché prevista, getta Londra nello scompiglio. E gli inglesi quasi non vogliono credere alla «soata» del loro rappresentante diplomatico in Iran. Chiedono conferma allo scià di Persia attraverso l’ambasciata a Teheran. E la ottengono, con una risposta che non ammette replica. Gli iraniani, telegrafa Roger Stevens al Foreign Oce, il 23 marzo, considerano il contratto stipulato con l’Eni «innovativo e a loro molto favorevole». Stevens si consulta anche con un collega americano nella capitale persiana, per avere anche da lui qualche lume sulle intenzioni di Mattei. Poi riferisce a Londra: «Il principale interesse dell’Agip consiste nell’entrare nel Consorzio [delle imprese petrolifere straniere in Iran, nda], per poi siglare una serie di accordi separati».

Continua

 

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