
© Filippo Chinnici
Il Talmud, summa esegetico-normativa dell’ebraismo rabbinico, affonda le sue radici nella complessa stratificazione della Torah orale (Torah Shebe’al Peh, תּוֹרָה שֶׁבְּעַל פֶּה), il cui sviluppo, maturato nel contesto del Secondo Tempio, fu sistematizzato secondo l’impianto interpretativo della scuola farisaica. L’acceso contrasto tra Farisei e Sadducei circa l’ermeneutica della Torah scritta (Torah Shebiktav, תּוֹרָה שֶׁבִּכְתָב) si rivelò determinante per la legittimazione di una trasmissione orale parallela, la quale — con il crollo del sistema cultuale nel 70 d.C. — divenne il fulcro identitario e normativo del giudaismo postbiblico.
Tale patrimonio dottrinale fu custodito e trasmesso oralmente nel corso dei secoli, fino alla sua redazione nella Mishnah e nelle due grandi compilazioni talmudiche: il Talmud di Babilonia (Bavli) e quello di Gerusalemme (Yerushalmi). Il presente studio si propone di ricostruire la genesi storica e teologica di questo monumento della letteratura giudaica, mettendone in luce le origini farisaiche, la funzione oppositiva del sadducismo e il processo di codificazione che ne sancì l’autorità. In conclusione, si prenderà in esame la radicale antitesi tra la tradizione talmudica e l’insegnamento del Messia, il quale, nei Vangeli, denuncia le tradizioni umane come sovrastrutture che oscurano l’intelligenza genuina della Legge divina.
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Contenuti
- Introduzione
- 1. Farisei e Sadducei: divergenze teologiche e giuridiche
- 2. La codificazione della tradizione orale e la nascita del Talmud
- 3. Il Talmud e la sua contrapposizione al Cristianesimo
- Conclusione
Introduzione
1. Farisei e Sadducei: divergenze teologiche e giuridiche
L’ebraismo del periodo del Secondo Tempio non si configurava come un corpo dottrinale monolitico, bensì come un insieme articolato di correnti interpretative, spesso in aperto contrasto tra loro. Tra le scuole di pensiero che si contesero con maggiore intensità l’egemonia esegetica e normativa, emersero i Farisei e i Sadducei, le cui visioni risultavano inconciliabili sul piano dell’autorità scritturistica, dell’ermeneutica legale e dell’escatologia. Le implicazioni di tale conflitto avrebbero inciso profondamente sulla genesi della tradizione orale e sul successivo distacco tra il giudaismo e il cristianesimo delle origini.
A. I Farisei e la tradizione orale
I Farisei (פרוּשִׁים, Perushim, «separati») costituivano un movimento religioso e interpretativo le cui origini risalgono all’età asmonea (II secolo a.C.). Essi ritenevano che, accanto alla Torah scritta, Mosè avesse ricevuto sul Sinai un corpus parallelo di insegnamenti orali (Torah Shebe’al Peh), trasmesso ininterrottamente attraverso le generazioni e destinato a guidare l’applicazione storica e concreta dei precetti divini.
Questa concezione ermeneutica rese possibile la formazione di una giurisprudenza flessibile e adattabile, capace di rispondere ai mutamenti politici, sociali e culturali della vita d’Israele. L’opera interpretativa dei Farisei si articolava principalmente attorno a tre strumenti normativi:
- Midrash Halakhah: metodologia esegetica orientata all’estrazione di norme giuridiche dalla Torah scritta mediante l’uso di regole interpretative complesse;
- Takkanot : decreti rabbinici promulgati a beneficio della collettività, anche in deroga a disposizioni scritturali, ove ciò fosse ritenuto necessario per il bene comune;
- Minhaghim : consuetudini locali e comunitarie che, con il tempo, acquisivano valore giuridico.
Accanto all’elaborazione normativa, i Farisei professavano credenze teologiche estranee al testo scritto della Torah, ma fondate su tradizioni profetiche, sapienziali o influenze culturali di epoche successive, quali:
- la risurrezione dei morti (Teḥiyyat ha-Mētim, תחיית המתים), attestata nei profeti e nella letteratura apocalittica (cfr. Daniele 12:2; Sanhedrin 90b);
- la fede nell’esistenza di angeli e spiriti, di probabile matrice persiana post-esilica;
- la dottrina di una retribuzione post-mortem, secondo cui i giusti sarebbero stati premiati e gli empi condannati nell’aldilà.
In seguito alla distruzione del Tempio, i Farisei seppero reinterpretare l’identità religiosa di Israele, sostituendo al culto sacrificale l’osservanza normativa, la preghiera e lo studio della Legge. Così facendo, trasformarono la religione d’Israele in un sistema centrato sull’autorità interpretativa della Halakhah (הֲלָכָה), affidata all’insegnamento dei maestri (ḥakhamim), custodi della tradizione orale.
B. I Sadducei e l’interpretazione letterale della Torah
I Sadducei (צְדוּקִים, Tzeduqim), probabilmente derivanti dalla figura del sommo sacerdote Zadok, rappresentavano un’aristocrazia cultuale legata al Tempio e al potere sacerdotale. Essi rigettavano ogni forma di tradizione orale, riconoscendo come normativa esclusiva la Torah scritta, della quale sostenevano un’interpretazione letterale e immutabile.
Le principali divergenze con la corrente farisaica possono essere così riassunte:
1. Negazione della tradizione orale
I Sadducei ritenevano vincolante solo ciò che fosse chiaramente attestato nel testo scritto, escludendo ogni forma di elaborazione rabbinica o trasmissione extrabiblica.
2. Rigetto della risurrezione e dell’escatologia spirituale
Secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio (Guerra Giudaica, II, 162–165), essi negavano ogni forma di retribuzione ultraterrena e la sopravvivenza dell’anima, contrapponendosi tanto ai Farisei quanto, successivamente, alla dottrina cristiana (cfr. Matteo 22:23–33).
3. Applicazione letterale della pena del taglione
L’interpretazione della legge del contrappasso (lex talionis) veniva intesa in senso fisico e punitivo, mentre i Farisei ne avevano elaborato una lettura compensativa e pecuniaria (cfr. Makkot 1:1).
4. Centralità esclusiva del culto sacrificale
Per i Sadducei, il servizio liturgico nel Tempio rappresentava il fulcro dell’identità religiosa. La loro autorità, pertanto, venne meno con la distruzione del santuario, evento che sancì il tramonto definitivo della loro influenza dottrinale e la progressiva egemonia farisaica.
2. La codificazione della tradizione orale e la nascita del Talmud
A seguito della distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., il giudaismo si trovò costretto a ridefinire la propria struttura cultuale, dottrinale e identitaria. In assenza del sacrificio e del sacerdozio, la riflessione teologica si concentrò sull’elaborazione della legge orale, la cui trasmissione, fino ad allora affidata esclusivamente alla memoria e all’insegnamento diretto dei maestri, si avviò verso una fase di codificazione sistematica.
A. La Mishnah
Il primo tentativo organico di fissare per iscritto la tradizione giuridica orale si concretizzò nella Mishnah (משנה, “ripetizione”), redatta attorno al 200 d.C. sotto la guida di Rabbi Yehudah ha-Nasi. Quest’opera monumentale raccoglie l’insegnamento delle generazioni rabbiniche farisaiche, ordinandolo in sei sezioni (Sedarim) che regolano la vita cultuale, civile e sociale del popolo ebraico.
Le materie trattate spaziano dalle norme agricole (Zera’im), al calendario liturgico (Mo’ed), al diritto familiare (Nashim), alla legislazione civile (Nezikin), alle disposizioni rituali sul culto e sui sacrifici (Kodashim), fino alle leggi di purità (Tohorot). La struttura della Mishnah conserva la forma dialogica del dibattito rabbinico, riportando divergenze di opinione e linee interpretative spesso contrastanti: segno di una tradizione che non si fonda sull’uniformità, ma sulla tensione dinamica tra memoria e norma, autorità e pluralismo.
B. Il Talmud di Gerusalemme e il Talmud Babilonese
Nei secoli successivi, la Mishnah divenne l’oggetto privilegiato del commento e della discussione nelle accademie rabbiniche della Palestina e della Babilonia. Questi dibattiti furono progressivamente raccolti nella Gemara, il cui intreccio con la Mishnah andò a costituire le due redazioni del Talmud: quello di Gerusalemme (Talmud Yerushalmi) e quello di Babilonia (Talmud Bavli).
- Il Talmud Yerushalmi (Talmud di Gerusalemme), redatto attorno al IV secolo nelle scuole di Tiberiade e Cesarea, presenta un impianto dottrinale più essenziale, segnato da una trasmissione meno uniforme e da un contesto politico instabile. Il Talmud Bavli, composto nei secoli V–VI a Sura e Pumbedita sotto dominio persiano, si distingue invece per profondità argomentativa, struttura coerente e autorità normativa.
- Nel tempo, il Talmud Bavli (Talmud Babilonese) acquisì uno statuto preminente all’interno del giudaismo diasporico, divenendo il riferimento principale per l’elaborazione della Halakhah. In esso, la Torah orale assume un’autonomia crescente, sino a costituire un sistema giuridico-interpretativo che, nella prassi, tende a prevalere sulla Torah scritta. La funzione del maestro (rav) e il corpus della tradizione divengono, di fatto, il nuovo centro di autorità.
Il Talmud non si limita a chiarire il testo biblico: lo riformula, lo ingloba, lo trasfigura in una rete di precetti, consuetudini e sentenze che, nel tempo, finiranno per costituire l’asse portante del giudaismo rabbinico. In tal senso, esso rappresenta il compimento della trasformazione iniziata con i Farisei: la Legge non più custodita dal Tempio, ma interpretata nella casa di studio.
Tale sviluppo segnò una rottura teologica fondamentale: il Talmud, lungi dall’essere un commentario subordinato alla Torah, si configurava come una meta-Torah, un sistema normativo completo che — nella prassi — tendeva a sostituire il testo biblico con la sua interpretazione autoritativa. In tal modo, la centralità della rivelazione scritta veniva progressivamente eclissata dal magistero rabbinico, in aperto contrasto con la concezione cristiana secondo cui Cristo è il compimento della Legge e non la sua perpetua reinterpretazione.
Il Talmud non interpreta la Torah: la sostituisce, de facto.
3. Il Talmud e la sua contrapposizione al Cristianesimo
Nonostante il Talmud rappresenti uno dei pilastri fondanti della cultura e dell’identità giudaica post-Secondo Tempio, il suo rapporto con il Cristianesimo è stato fin dalle origini improntato a una marcata opposizione teologica e, talvolta, a una polemica aspra e intransigente. In questa sezione si analizza il contrasto tra il Talmud e l’insegnamento di Gesù, il rifiuto del Vangelo e la conseguente ostilità verso la comunità cristiana primitiva.
A. Gesù e la condanna delle tradizioni farisaiche
Nei Vangeli, Gesù di Nazareth si confronta ripetutamente con la dottrina farisaica, criticandone l’ipocrisia e denunciando la tendenza a sovrapporre alle prescrizioni divine un complesso di tradizioni umane, le quali finivano per oscurarne il senso autentico.
Ipocriti! Bene ha profetato Isaia di voi, dicendo: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Matteo 15:7–9).
Tale ammonimento profetico, richiamato da Cristo, assume valore paradigmatico alla luce dello sviluppo successivo della tradizione rabbinica, che confluirà nella sistematizzazione della Torah orale all’interno del Talmud. Il riferimento evangelico non si limita a una critica etica, ma esprime una rottura teologica con il sistema interpretativo farisaico, accusato di sviare il popolo sostituendo l’autorità divina con elaborazioni dottrinali di origine umana.
Il Vangelo secondo Matteo, in particolare al capitolo 23, contiene un’ampia requisitoria contro la leadership religiosa dell’epoca, cui Gesù rivolge espressioni di estrema severità:
- «Guide cieche»
- «Sepolcri imbiancati»
- «Uomini che impongono pesi insostenibili sulle spalle del popolo»
- «Figli del diavolo» (cfr. Giovanni 8:44)
Guai a voi, scribi e Farisei ipocriti! Perché chiudete il Regno dei cieli davanti agli uomini; e voi non vi entrate, né lasciate entrare quelli che vorrebbero entrarvi (Matteo 23:13).
Questa opposizione radicale tra il Messia e i capi religiosi del tempo si configura non solo come denuncia dell’ipocrisia personale, ma come condanna di un intero impianto teologico fondato sull’autorità extrabiblica della tradizione orale. Essa prelude al distacco sistemico tra il Vangelo della grazia e il corpus normativo che troverà piena espressione nel Talmud.
B. Gesù e il Talmud
Il contrasto tra l’insegnamento del Cristo e la successiva elaborazione rabbinica non si esaurisce in una divergenza esegetica, ma assume i tratti di una frattura strutturale e sistemica. Il giudaismo rabbinico post-biblico, nella sua codificazione talmudica, manifesta un rigetto formale e sostanziale della figura di Gesù, esplicitato attraverso appellativi dispregiativi e formule escludenti presenti nei testi canonici della tradizione orale.
1. La condanna di Gesù nei testi talmudici
Nel Trattato Sanhedrin 43a si legge:
Alla vigilia di Pesach, Yeshu fu impiccato. Per quaranta giorni prima dell’esecuzione, un banditore proclamò: ‘Egli sarà lapidato perché ha praticato la magia e ha sviato Israele nell’apostasia. Chiunque abbia qualcosa da dire in sua difesa, venga avanti e lo faccia’. Ma poiché nessuno si presentò, egli fu impiccato alla vigilia di Pesach.
Questo passo si discosta sensibilmente dalla narrazione evangelica in almeno due punti:
- l’attribuzione a Gesù dell’accusa di magia, come giustificazione teologica e giuridica per la sua condanna (cfr. Matteo 12:24);
- la responsabilità esclusiva delle autorità giudaiche nell’esecuzione capitale, con l’omissione di ogni riferimento al potere romano.
Nel Trattato Gittin 57a si legge inoltre:
Yeshu è nel Gehinnom, dove viene immerso in sterco bollente.
Tale immagine escatologica non è priva di significato teologico: essa riflette l’intenzione deliberata di delegittimare e disumanizzare la figura di Cristo agli occhi della comunità ebraica, escludendolo non solo dalla vita eterna, ma dalla dignità stessa della memoria.
2. Il carattere dispregiativo delle denominazioni talmudiche
Nei testi rabbinici, il nome proprio di Gesù non viene quasi mai utilizzato. Al suo posto compaiono appellativi enigmatici o spregiativi, volti a occultarne l’identità e a denigrarne la figura:
- Ben Stada (Sanhedrin 67a): nome criptico, talvolta associato all’idea di follia o adulterio;
- Talui («il sospeso»): allusione sprezzante alla crocifissione, ridotta a mero atto infamante;
- Yeshu ha-Notzri: designazione che alcuni commentatori medievali interpretarono come acronimo di Yimach Shemo Ve-Zikhro (ימח שמו וזכרו), «sia cancellato il suo nome e il suo ricordo».
C. Cristiani e norme rabbiniche
La frattura tra giudaismo rabbinico e cristianesimo si approfondì ulteriormente con l’elaborazione di norme liturgiche e giuridiche volte a escludere e stigmatizzare i seguaci di Gesù.
1. Il termine Minim e la condanna liturgica
Nel Talmud, i cristiani sono spesso identificati con il termine Minim (מינים), generalmente tradotto come “eretici”. Le fonti rabbiniche più antiche sembrano riferirsi, in particolare, ai giudeo-cristiani, ossia a quegli ebrei che avevano riconosciuto in Gesù il Messia.
Nel Trattato Berakhot 28b–29a è menzionata la Birkat ha-Minim, una maledizione recitata nell’Amidah:
Per gli eretici [Minim] non vi sia speranza; e possa il regno dell’arroganza essere rapidamente sradicato nei nostri giorni. E possano i Nazarei e gli eretici perire in un istante.
Secondo molti studiosi, questa formula liturgica fu introdotta per escludere i cristiani dalle sinagoghe e rafforzare la separazione confessionale.
2. Norme discriminatorie nei confronti dei cristiani
Numerosi passi talmudici riflettono un atteggiamento di separazione, e talvolta di ostilità, nei confronti dei non ebrei e, in particolare, dei cristiani:
- «I migliori tra i gentili meritano la morte» (Avodah Zarah 26b);
«I libri dei Minim devono essere bruciati, anche nei giorni di festa» (Shabbat 116a), allusione probabile ai Vangeli o ad altri testi cristiani;
«Un rotolo della Torah scritto da un cristiano deve essere bruciato, anche se contiene il Nome divino» (Gittin 45b).
Tali disposizioni manifestano un’intenzione esplicita: impedire la diffusione del messaggio evangelico e circoscrivere l’influenza cristiana all’interno del popolo ebraico.
Lex nova, gratia et veritas per Iesum Christum facta est – «La nuova legge, la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo» (Giovanni 1:17).
D. Talmud contro il messaggio del Vangelo
L’antitesi tra il Talmud e il messaggio evangelico non si esaurisce nel rigetto della figura messianica di Gesù, ma si estende all’intero impianto dottrinale del Nuovo Testamento. Il Vangelo proclama la grazia, la misericordia e la redenzione universale, fondate sulla fede e sul compimento della Legge in Cristo. Il Talmud, al contrario, si configura come un sistema normativo chiuso, casistico, esclusivista, incentrato sulla distinzione giuridica e cultuale tra ebrei e non ebrei.
Il Trattato Avodah Zarah, che disciplina i rapporti con gli idolatri, colloca esplicitamente il cristianesimo entro una sfera teologica considerata abominevole. Vi si legge:
I libri dei Minim devono essere bruciati, anche nei giorni di festa (Shabbat 116a).
Sebbene il termine Minim sia genericamente riferibile agli eretici, numerosi studi concordano nel riconoscervi un riferimento diretto ai giudeo-cristiani dei primi secoli. La prescrizione di distruggere i loro scritti costituisce un rifiuto assoluto della Buona Novella, volto a ostacolarne la diffusione e privarla di ogni legittimità.
Nel medesimo spirito, Avodah Zarah 26b afferma:
I migliori tra i Gentili meritano la morte.
Tale dichiarazione, pur soggetta a interpretazioni attenuanti nelle edizioni moderne, riflette nel suo contesto originario una visione netta di separazione e superiorità giuridico-religiosa del popolo ebraico nei confronti delle nazioni — tra cui il cristianesimo era incluso, in quanto culto ritenuto estraneo e idolatrico.
Questa visione si oppone frontalmente al principio evangelico espresso da Paolo:
Non c’è più né Giudeo né Greco […] poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù (Galati 3:28).
Il contrasto non riguarda dunque soltanto l’oggetto della fede, ma la concezione stessa della Legge, della salvezza e dell’identità escatologica del popolo di Dio. Da un lato, la grazia redentrice offerta in Cristo abbatte ogni distinzione etnica e cultuale; dall’altro, il Talmud ripristina confini invalicabili fondati su un’identità normativa esclusiva.
E. Talmud contro il Cristianesimo
L’atteggiamento del Talmud nei confronti del Cristianesimo e dei suoi seguaci è stato oggetto di numerose indagini accademiche, che hanno evidenziato la persistenza di elementi di polemica teologica, segregazione giuridica e, in taluni casi, ostilità esplicita. Sebbene alcuni studiosi contemporanei abbiano tentato di reinterpretare tali affermazioni in chiave contestuale, attribuendole a un clima di persecuzione o marginalizzazione, l’analisi filologica e storica delle fonti rivela la presenza di un sistema di contrapposizione strutturale, volto a escludere Cristo e i suoi discepoli dalla comunità di fede.
1. La condanna dei cristiani come idolatri
Nel Talmud, i seguaci di Gesù vengono frequentemente assimilati agli idolatri, con conseguenze rilevanti sul piano giuridico, cultuale ed escatologico. Il termine Minim (מינים), già attestato come designazione generica per gli eretici, fu applicato prevalentemente ai giudeo-cristiani, ritenuti dai rabbini una minaccia interna all’integrità dottrinale e identitaria dell’ebraismo.
Nel Trattato Avodah Zarah 26b si legge:
i migliori tra i gentili meritano la morte.
Pur essendo tale espressione oggetto di controversie esegetiche, essa fu interpretata da vari maestri medievali come riferita ai cristiani, considerati idolatri a causa della dottrina trinitaria e dell’incarnazione. In Avodah Zarah 17a si afferma inoltre:
I Minim non avranno parte al mondo a venire.
Analoga condanna è espressa in Sanhedrin 90a:
Chi legge i Vangeli e chi segue la via dei Minim non avrà parte alla vita eterna.
L’esclusione escatologica non è dunque accidentale, ma si radica in una visione teologica secondo cui Cristo rappresenta una rottura inaccettabile rispetto all’ortodossia mosaica.
2. La distruzione dei testi cristiani
L’ostilità talmudica non si limitava alla condanna teologica, ma si esprimeva anche in provvedimenti pratici volti a contenere e annientare l’influenza cristiana. Il Trattato Shabbat 116a ordina:
I libri dei minim devono essere bruciati, persino nelle festività sacre.
Secondo molti studiosi, tale disposizione includeva i testi evangelici e gli scritti cristiani circolanti nelle comunità ebraiche. In Gittin 45b si legge inoltre:
Un rotolo della Torah scritto da un cristiano deve essere bruciato, anche se contiene il Nome divino.
Ciò rivela il grado estremo di separazione imposto: perfino l’atto di copiare la Torah — se compiuto da un cristiano — è considerato contaminante, al punto da rendere impuro anche il Nome sacro. Non si tratta, dunque, di una mera divergenza dottrinale, ma di una vera e propria strategia di cancellazione culturale e religiosa.
3. Divieto di soccorrere i cristiani in difficoltà
Il Talmud non si limita alla sfera dottrinale, ma regola anche i rapporti interpersonali con i non ebrei secondo criteri differenziati. In Choshen Mishpat 425:5 si afferma:
Un ebreo non è tenuto a salvare un gentile in pericolo di morte.
Sebbene interpreti successivi abbiano cercato di limitare tale norma a contesti di ostilità religiosa, la formulazione letterale non lascia dubbi sulla disparità etica applicata nella giurisprudenza rabbinica antica.
Un’ulteriore norma, contenuta in Yoreh De’ah 158:1, stabilisce:
Un medico ebreo non deve curare un cristiano, se non in presenza di un vantaggio per la comunità ebraica.
Tale norma riflette una concezione della responsabilità morale subordinata all’appartenenza religiosa, in palese contrasto con il precetto evangelico dell’amore universale (cfr. Luca 10:25–37).
4. La legittimazione dell’inganno verso i cristiani
Alcune fonti rabbiniche autorizzano esplicitamente l’uso dell’inganno nei confronti dei gentili, qualora ciò favorisca la collettività ebraica. In Bava Kamma 113a si legge:
È lecito per un ebreo ingannare un gentile se ciò è necessario per il bene della propria collettività.
Nel corso del medioevo, tale principio fu spesso interpretato in chiave etico-pragmatica nei rapporti con i cristiani, considerati esterni all’alleanza.
In Sanhedrin 57a si afferma:
Un ebreo non è tenuto a restituire un oggetto smarrito a un gentile.
Il fondamento di questa prescrizione risiede nella distinzione tra «fratelli» e «stranieri», applicando i doveri morali esclusivamente all’interno del popolo d’Israele. Tale principio, pur rielaborato nei secoli successivi, riflette un’antropologia giuridica profondamente settaria.
5. Persecuzioni reciproche e processi al Talmud
Il contenuto di molti passi talmudici fu oggetto, nel XIII secolo, di processi inquisitoriali tesi a dimostrare l’ostilità degli ebrei verso il Cristianesimo. Tali procedimenti contribuirono ad alimentare un clima di diffidenza e conflittualità che avrebbe segnato i rapporti ebraico-cristiani nei secoli successivi.
Sebbene la polemica anticristiana si sia sviluppata anche in contesti di marginalizzazione e autodifesa, essa non può essere ridotta a semplice reazione contingente. La presenza di norme esplicite e sistematiche attesta che la frattura non fu solo culturale, ma dottrinale, e che l’identità rabbinica si strutturò anche in opposizione alla figura del Messia rigettato.
Conclusione
L’analisi del Talmud alla luce della rivelazione cristiana rivela la profondità di una frattura che non è soltanto storica o dottrinale, ma ontologica e teologicamente strutturale. Il Talmud, sviluppatosi come espressione normativa della tradizione orale farisaica, rappresenta il compimento di un sistema interpretativo che, nel corso dei secoli, ha progressivamente subordinato la Torah scritta alla casistica esegetica dei maestri.
Il cristianesimo, invece, proclama in Cristo il compimento della Legge, la sua incarnazione definitiva e il superamento delle prescrizioni rituali attraverso la grazia. Il Vangelo non nega la Legge, ma la riconduce al suo cuore profetico e salvifico, smascherando quelle tradizioni che, elevate a norma, finiscono per svuotarne il senso spirituale. Le invettive di Gesù contro i Farisei non si limitano a una denuncia morale, ma costituiscono l’annuncio profetico di una rottura destinata a permanere lungo i secoli.
Nel Talmud, questa rottura si traduce nella costruzione di un sistema giuridico autosufficiente, volto non solo a sostituire l’autorità della rivelazione messianica, ma anche a neutralizzarne ogni influenza attraverso meccanismi di esclusione, censura e condanna. L’ostilità nei confronti del Cristo, dei suoi discepoli e dei suoi scritti non è episodica, ma sistemica: testimonia il tentativo di preservare un’identità religiosa fondata sulla separazione e sulla distinzione normativa, in opposizione all’universalità della salvezza in Cristo.
Le disposizioni discriminatorie, la censura del Vangelo, la condanna escatologica della figura di Gesù e il rigetto dei suoi seguaci delineano con chiarezza la natura teologica della frattura. Il Talmud non riconosce nel Messia crocifisso e risorto l’adempimento delle promesse, ma lo colloca tra gli apostati, i bestemmiatori, gli idolatri. Così facendo, esso si costituisce come sistema alternativo, non come semplice variante interpretativa.
Contro questo paradigma, il Vangelo proclama:
Cristo è il compimento della legge per la giustificazione di chiunque crede (Romani 10:4)
Laddove il Talmud sancisce la separazione, Cristo offre la riconciliazione. Laddove l’interpretazione rabbinica codifica la distanza, il Vangelo annuncia l’accesso universale alla grazia. Di fronte a tale dicotomia, non è possibile rimanere neutrali. Occorre tornare alle Scritture con spirito filologico e cuore aperto, riconoscendo nella persona di Gesù il centro della rivelazione divina e nella croce il punto di convergenza tra Legge e promessa, tra giustizia e misericordia.
Solo una lettura teologicamente onesta e storicamente consapevole potrà restituire al dibattito contemporaneo la chiarezza necessaria per discernere ciò che è umano da ciò che è divino, ciò che è tradizione da ciò che è rivelazione, ciò che è sistema da ciò che è salvezza.
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