Il piano Trump su Gaza – Dietro le quinte della nuova ingegneria geopolitica

© Filippo Chinnici – tutti i diritti riservati
I comunicati ufficiali parlano di cessate il fuoco, aiuti umanitari, scuole e ospedali da ricostruire. Dietro questa facciata si cela però una macchina di ingegneria geopolitica, pensata per neutralizzare Hamas e traghettare Gaza verso una tutela esterna senza scadenza. Ciò che appare come promessa di pace e prosperità si configura in realtà come un protettorato economico-tecnocratico, dove la sovranità palestinese viene rinviata sine die e sostituita da un controllo multilivello, in cui capitale globale, governance fiduciaria e apparati di sicurezza convergono.
Questa analisi si discosta non solo dalla propaganda mainstream, che legge il piano come un gesto filantropico, ma anche da certa contro-informazione che lo riduce a mera annientazione militare. Ciò che vediamo è più sottile: la pacificazione come dispositivo di controllo e la ricostruzione come strumento di normalizzazione. È in questa chiave che diventa plausibile parlare di una Yalta 2.0 : un accordo già siglato nelle retrovie del potere, di cui ora scorgiamo solo le ombre proiettate. [The Guardian]
1. Hamas: dall’opposizione controllata alla rottamazione
Hamas non nacque spontaneamente. Negli anni Settanta e Ottanta Israele ne favorì l’ascesa come contrappeso all’OLP laica di Arafat. In quel periodo il governatore militare di Gaza, Yitzhak Segev, dichiarò al New York Times (1981) di aver ricevuto fondi governativi per finanziare moschee e associazioni religiose, con l’obiettivo esplicito di indebolire i nazionalisti palestinesi. Questa ammissione, più volte ripresa in studi successivi, resta uno dei tasselli più significativi nella genealogia del movimento islamista. Nel medesimo contesto fu legittimata la Mujama al-Islamiya di Sheikh Ahmed Yassin, futura radice di Hamas, e venne riconosciuta l’Università islamica di Gaza, allora percepita come alternativa al nazionalismo secolare. L’intento era chiaro: frammentare il consenso palestinese, dividendo la componente religiosa da quella laica, così da depotenziare l’OLP.
Sul sostegno attivo e istituzionale fornito da Israele alle reti islamiste a Gaza negli anni Settanta e Ottanta cfr. David K. Shipler, Under Gaza’s Calm Surface: Death, Drugs, Intrigue, The New York Times, 28 marzo 1981, https://www.nytimes.com/1981/03/28/world/under-gaza-s-calm-surface-death-drugs-intrigue.html (dove il governatore militare Yitzhak Segev ammette il finanziamento delle moschee come contrappeso all’OLP); Ann M. Lesch, Gaza: Forgotten Corner of Palestine, Journal of Palestine Studies, 14(1), 1985, pp. 46–61, https://doi.org/10.2307/2536576; Sara Roy, Changing Political Attitudes among Gaza Refugees, Journal of Palestine Studies, 18(2), 1989, pp. 48–67, https://doi.org/10.2307/2537246; Ziad Abu-Amr, Hamas: A Historical and Political Background, Journal of Palestine Studies, 22(4), 1993, pp. 5–19, https://doi.org/10.2307/2538077; Jean-Pierre Filiu, The Origins of Hamas: Militant Legacy or Israeli Tool?, Journal of Palestine Studies, 41(3), 2012, pp. 54–70, https://doi.org/10.1525/jps.2012.XLI.3.54. Per una ricostruzione retrospettiva si veda anche Andrew Higgins, How Israel Helped to Spawn Hamas, Wall Street Journal, 24 gennaio 2009. A livello giornalistico-investigativo, si confronti inoltre Mehdi Hasan e Dina Sayed-Ahmed, How Israel Went from Helping Create Hamas to Bombing It, The Intercept, 19 febbraio 2018, https://theintercept.com/2018/02/19/hamas-israel-palestine-conflict/, che raccoglie testimonianze di ex funzionari israeliani (fra cui Avner Cohen) e ripropone la dichiarazione di Segev, interpretando queste dinamiche come una vera e propria ingegneria politica finalizzata a indebolire l’OLP.
Quella che apparve come un’astuzia tattica si trasformò in un boomerang. Hamas, nato come strumento, si emancipò fino a divenire un avversario radicale. Nel 2009 Avner Cohen, funzionario israeliano a Gaza, lo riconobbe apertamente al Wall Street Journal:
«Hamas, con mio grande rammarico, è una creazione di Israele»
Il Washington Post nel 2014 confermò come Israele avesse contribuito a creare le condizioni per l’ascesa di Hamas, e già nel 1992 il Los Angeles Times lo descriveva come un «ex cliente» divenuto nemico irriducibile.
Ma il ciclo — utilità, emancipazione, boomerang — non appartiene solo al passato. Il 7 ottobre 2023 ne è il più recente snodo: un attacco di Hamas che, tra anomalie e falle inspiegabili nei sistemi di sicurezza israeliani, ha assunto i tratti di un false flag o, quantomeno, di complicità passiva. Diversi analisti e fonti d’intelligence hanno segnalato l’inspiegabile cecità dei sofisticati apparati di sorveglianza israeliani, in particolare quelli lungo la barriera di Gaza. L’evento si è rivelato strumentale per Netanyahu: ha fornito il casus belli per devastare Gaza e aprire la strada a una ristrutturazione geopolitica ed economica già preparata nei dossier internazionali.
La parabola è chiara: Hamas come opposizione controllata nelle origini, poi contenuto, infine rottamato perché il costo reputazionale supera ogni beneficio strategico. È in questo quadro che il «piano Trump» si presenta come l’atto finale: la sostituzione di Hamas con una governance più docile e prevedibile.
2. Il “piano Trump”: umanitarismo come paravento di una tutela esterna
Ieri 29 settembre 2025 Donald Trump ha presentato il “suo” piano in venti punti per Gaza, tradotti integralmente in italiano da Affari internazionali.
Ho studiato attentamente il documento: ufficialmente promette cessate il fuoco, liberazione degli ostaggi, aiuti e ricostruzione. Ma il suo cuore non è umanitario: è politico e strategico.
Il documento prevede la smilitarizzazione totale di Hamas, la distruzione delle sue infrastrutture militari, la rinuncia a qualunque capacità difensiva autonoma e la sostituzione del governo locale con un’amministrazione tecnica apolitica, sostenuta da un organismo internazionale denominato Consiglio per la Pace (Peace Board). Questo Consiglio, presieduto da Trump, include figure di alto profilo, tra cui Tony Blair, nominato esplicitamente come membro nel punto 9.
Colpisce ciò che nel testo non c’è: nessun riferimento a uno Stato palestinese, nessuna road map verso la sovranità, nessun vincolo politico. Al contrario, il progetto congela la questione palestinese in una tutela fiduciaria esterna, con governance provvisoria che differisce sine die ogni prospettiva d’indipendenza. La retorica umanitaria è un velo: Gaza viene proiettata in un modello di protettorato amministrato, con forza multinazionale a garanzia subordinata a parametri stabiliti altrove.
Dietro gli slogan di pace si cela un’agenda economica: incentivi agli investimenti esteri, sviluppo di corridoi logistici, apertura al turismo costiero sul modello Dubai. La “pacificazione” diventa tecnologia di controllo.
3. La cerniera decisiva: Blair (scritto) Kushner e PIF (non scritti)
Se il piano in venti punti cita espressamente Tony Blair come membro del Consiglio per la Pace (Peace Board), è proprio nella sua figura che emerge la cerniera tra diplomazia politica e finanza globale.
Per capire che cosa comporti davvero quella presenza, occorre guardare alle reti finanziarie di cui Blair è snodo. Blair non è un nome neutrale: già inviato speciale del Quartetto in Medio Oriente (2007–2015), ha poi fondato il Tony Blair Institute for Global Change, organismo che negli anni ha ricevuto finanziamenti consistenti dall’Arabia Saudita e da altri regimi del Golfo. Il Financial Times ha documentato che il Tony Blair Institute ha ricevuto donazioni dall’Arabia Saudita, mentre il Telegraph rivelò un contratto da 9 milioni di sterline con Riyadh per attività di consulenza . Più recentemente, il Guardian ha mostrato come il Tony Blair Institute abbia continuato a incassare fondi sauditi anche dopo l’omicidio Khashoggi nel 2018 , ed è tornato sotto i riflettori nel 2025 per la trasparenza dei donatori. Se questo non costituisce la “pistola fumante” a provare un “controllo” saudita sull’Istituto, ne attesta quantomeno un rapporto strutturale tra Blair/TBI e i capitali del Golfo, che oggi torna utile nell’architettura della “Nuova Gaza”. Blair porta a Gaza un capitale di reti che travalica la diplomazia: un ponte diretto tra Occidente e monarchie del Golfo, già collaudato nei circuiti della grande finanza e della consulenza transnazionale.
Diverso il caso del genero di D. Trump, Jared Kushner, e del Public Investment Fund (PIF) saudita: non compaiono nei venti punti, ma emergono come infrastruttura esterna del progetto. Dopo aver lasciato la Casa Bianca, mossa strategica, Kushner ha fondato Affinity Partners e ha ottenuto 2 miliardi di dollari dal PIF, decisione presa direttamente da Mohammed bin Salman contro il parere del comitato interno del fondo sovrano. Il dato è riportato da Business Insider (che riprende l’inchiesta NYT) ed è citato in atti ufficiali della House Oversight Committee (PDF). La vicenda è significativa perché indica una cerniera personale tra l’agenda trumpiana e il capitale sovrano saudita.
Il PIF è oggi uno dei serbatoi finanziari più potenti al mondo e il candidato naturale a sostenere la ricostruzione. Nel 2024 BlackRock ha varato con PIF una piattaforma d’investimento in Arabia (dotazione iniziale fino a 5 mld), mentre poche settimane fa, a maggio 2025, il PIF ha firmato accordi per ~12 mld con asset manager statunitensi (Franklin Templeton, Neuberger Berman): segnali di un innesto profondo dei petrodollari nella filiera della finanza occidentale.
Qui affiora anche la dimensione storica delle dinastie bancarie e dei loro eredi istituzionali, i riscontri sono concreti. Nel 2024 Edmond de Rothschild Group ha annunciato l’apertura di uffici a Riyadh e nel giugno 2024 Edmond de Rothschild ha comunicato l’avvio di una piattaforma di debito infrastrutturale in Arabia (JV con SNB Capital e Watar Partners), confermato anche da Reuters. Non si tratta di dominio occulto, ma di una continuità funzionale: ciò che i Rothschild e i Sassoon furono per i prestiti ottocenteschi, oggi lo sono BlackRock, JPMorgan, Goldman Sachs nel trasformare i petrodollari in leve geopolitiche [finews].
Le carte parallele rendono infine leggibile la forma di fondo. Il Washington Post (2025), ha pubblicato persino il PDF integrale del prospetto GREAT Trust («Grande fondo fiduciario») che delinea un trust decennale a guida USA, rilocalizzazioni “volontarie”, “città intelligenti” (smart cities) e ritorni garantiti per capitali pubblici/privati; un articolo di contesto ne riassume i passaggi chiave. Non mancano riferimenti a infrastrutture dedicate a MBS e MBZ, con un ruolo di primo piano delle grandi società di consulenza occidentali.
In sintesi: Blair è la facciata diplomatica (scritto nei 20 punti); Kushner è la cerniera politico-finanziaria verso i petrodollari (documentata da fonti pubbliche e atti congressuali); il PIF è il carburante; e intorno, BlackRock, Sassoon, Rothschild & Co ed Edmond de Rothschild forniscono la meccanica d’intermediazione che trasforma la ricostruzione in veicoli infrastrutturali e zone economiche speciali.
4. Netanyahu e Trump: il copione a due voci
In superficie, le traiettorie appaiono divergenti; in realtà, si tratta di una divisione dei ruoli. Benjamin Netanyahu ribadisce la linea dura, convinto che Hamas respingerà qualunque ipotesi di smilitarizzazione: in questo modo mantiene intatta la legittimità di nuove operazioni militari e consolida il consenso interno, soprattutto delle ali radicali e messianiche della destra israeliana. Donald Trump, per contro, si accredita come “mediatore risolutivo”, colui che può offrire un’architettura politica ed economica – la “New Gaza” – là dove Israele ha seminato soltanto devastazione.
La vera chiave interpretativa di questo copione a due voci è il 7 ottobre 2023. L’attacco di Hamas ha presentato anomalie tali da essere letto da molti analisti come un false flag funzionale. Rapporti delle commissioni interne all’IDF hanno mostrato omissioni e ritardi inspiegabili: ad esempio, le unità corazzate e aeree non risposero tempestivamente alle richieste d’intervento e il kibbutz Nir Oz rimase senza difesa per ore (Haaretz, 16 marzo 2025).
Lo stesso giornale ha invocato la necessità di una commissione statale di inchiesta, sottolineando come le indagini militari coprissero solo una parte delle responsabilità (Haaretz, 2 marzo 2025). Tuttavia, il governo israeliano ha deciso di non istituire tale commissione, scelta che lascia aperti interrogativi sulle reali responsabilità (Haaretz, 5 maggio 2025).
Anche la comunità internazionale ha sottolineato le omissioni: il rapporto ONU A/HRC/56/CRP.3 (10 giugno 2024 in PDF) e la versione integrale A/HRC/56/26 (18 giugno 2024 in PDF) hanno raccolto prove di violazioni e ritardi decisionali da parte delle forze israeliane.
Non meno significative le dimissioni del capo di stato maggiore israeliano, Herzi Halevi, che nel gennaio 2025 ha ammesso i «terribili fallimenti» di sicurezza del 7 ottobre (The Guardian, 21 gennaio 2025).
Se questi elementi da soli non obbligano a postulare un controllo totale dell’attacco, le omissioni e i ritardi sono sufficienti per comprendere come l’evento abbia fornito a Netanyahu il casus belli. L’attacco ha offerto la giustificazione per un’offensiva senza precedenti, per la distruzione sistematica delle infrastrutture civili e per riaprire il dossier di una “nuova geografia” del territorio: Gaza non più enclave resistente, ma tabula rasa da ridisegnare.
È a questo punto che entra in scena Trump. Mentre Netanyahu alimenta la narrativa della sicurezza nazionale e legittima la prosecuzione del conflitto, Trump si presenta alla comunità internazionale come l’uomo della ricostruzione. È un gioco di specchi: l’uno produce il problema, l’altro si offre come soluzione. Ma il disegno converge: lo smantellamento definitivo di Hamas, la blindatura strategica di Israele e l’integrazione di Gaza in una transizione tecnocratica vigilata dall’esterno e resa appetibile ai capitali globali.
La dinamica ripete schemi già noti alla storia: opposizione scenica e convergenza sostanziale. Prevedendo i contenuti di questo “Piano” ne parlavo in maniera più ampia nell’ultima diretta avuta alcuni giorni fa nella mia chat di gruppo personale e ne feci cenno a febbraio nel canale telegram. Così accadde a Yalta: mentre Roosevelt, Stalin e Churchill recitavano il copione della reciproca diffidenza, in realtà negoziavano da mesi la spartizione dell’Europa in sfere d’influenza. Lo stesso meccanismo aveva guidato nel 1916 l’accordo segreto Sykes–Picot, quando pubblicamente si prometteva autodeterminazione agli arabi, ma nei protocolli riservati si tracciava la mappa coloniale del Medio Oriente. E ancora, il patto Molotov–Ribbentrop (1939) fu annunciato come patto di non aggressione, ma celava protocolli segreti per spartire la Polonia e i Baltici.
La Guerra fredda offrì altri esempi: mentre Stati Uniti e URSS si presentavano come nemici irriducibili, seppero coordinarsi tacitamente per mantenere equilibri funzionali, come in Libano nel 1958 o nella transizione egiziana degli anni Settanta. Persino gli Accordi di Camp David (1978), celebrati come pace tra Israele ed Egitto, furono in realtà un dispositivo per riallineare il Cairo nell’orbita americana, con miliardi di aiuti militari come contropartita.
Il copione Netanyahu–Trump non si discosta da questa logica: un conflitto esibito che cela una convergenza sostanziale, funzionale a ridisegnare gli equilibri regionali e a proiettare Gaza in un ordine amministrato dall’esterno.
Grazie per aver riconosciuto Gerusalemme come nostra capitale eterna.
Grazie per aver riconosciuto i nostri diritti sulle Colline del Golan.
Grazie per aver difeso Israele alle Nazioni Unite.
Grazie per aver protetto i nostri diritti in Giudea e Samaria.
Grazie per aver mediato gli Accordi di Abramo.
Grazie per esserti ritirato dall’accordo disastroso con l’Iran.
“Grazie per aver supportato l’Operazione ‘Leone che sorge’ e per aver realmente lanciato l’Operazione Martello di Mezzanotte attaccando l’Iran”
Questo il senso delle parole del Premier israeliano B. Netanyahu quando saluta il Presidente americano D. Trump, vistosamente compiaciuto.
5. Governance, ONG e contractor: l’ossatura della “zona speciale”
Oltre i venti punti ufficiali del documento “di Trump”, l’infrastruttura operativa della futura Gaza è già delineata. Non è un piano meramente umanitario, ma una architettura tecno-finanziaria fondata su fondazioni parallele, reti private, consulenze globali e contractor.
Il Washington Post ha ricostruito la parabola della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), registrata in Delaware e presentata come ente neutrale, ma in realtà integrata nei canali USA–israeliani e protetta da contractor privati.
Il profilo giuridico conferma l’opacità: la Gaza Humanitarian Foundation è registrata in Delaware con un’affiliata a Ginevra, ma le autorità svizzere hanno avviato prima verifiche e poi procedure di scioglimento della sede per irregolarità formali come documenta Reuters (23 maggio 2025; 25 maggio 2025; 27 giugno 2025; 2 luglio 2025). A ciò si è aggiunto lo scandalo dei conti bancari: UBS e Goldman Sachs avevano inizialmente approvato l’apertura di conti per la fondazione, salvo poi sospenderli sotto pressione politica (Reuters, 4 luglio 2025).
Le carte del GREAT Trust («Grande fondo fiduciario»), recentemente trapelate e pubblicate — come già detto nel paragrafo 3 —, delineano un trustee decennale a guida USA, con rilocalizzazioni “volontarie”, “città intelligenti” e ritorni garantiti per capitali sovrani e privati. Gaza non viene avviata verso una piena sovranità, ma inserita in una zona economica speciale brandizzata come “Riviera del Medio Oriente”, ricalcata su modelli globali come Shenzhen e Dubai, in cui la logica degli incentivi economici sostituisce quella dei diritti politici.
Sul terreno, la Gaza Humanitarian Foundation è diventata rapidamente il nodo operativo. Tra maggio e agosto 2025 il Washington Post ha documentato dimissioni interne, denunce ONU di engineered scarcity (scarsità indotta, ossia razionamento deliberato per orientare comportamenti politici) e contestazioni di neutralità e sicurezza. A ciò si sono aggiunte le dimissioni del direttore Jake Wood, riportate da Reuters , e la pressione politica interna: 21 senatori hanno chiesto di cessare i finanziamenti alla Gaza Humanitarian Foundation e di ripristinare il canale ONU (Crisis Group, 18 luglio 2025).
Qui entrano in gioco le grandi società di consulenza globale. Non solo McKinsey & Company, PricewaterhouseCoopers (PwC) e il Boston Consulting Group (BCG), già protagonisti di Vision 2030 in Arabia Saudita, ma anche Oliver Wyman ed EY-Parthenon, che hanno plasmato i mega-progetti del Golfo — da NEOM a Diriyah — con blueprint macroeconomici, KPI di performance e ROI garantiti. McKinsey & Company ha avuto un ruolo diretto nell’elaborare i piani strategici del principe Mohammed bin Salman (New Yorker, 1 novembre 2018). PwC ed EY hanno rafforzato la loro presenza nella regione durante le riforme saudite, diventando parte integrante della trasformazione economica del Regno (Financial Times e Reuters, 3 marzo 2025). Il Boston Consulting Group, legato al Public Investment Fund (PIF), è stato indicato come partner privilegiato nella consulenza strategica ai megaprogetti sauditi (Reuters, 24 maggio 2024).
Lo stesso schema riemerge oggi a Gaza. Il Washington Post nelle settimane scorse ha seguito da vicino le polemiche che hanno travolto BCG: prima il ritiro dal progetto, dopo le critiche sulla politicizzazione degli aiuti, poi le scuse pubbliche del suo CEO per le pressioni esercitate dagli sponsor israeliani.
Il quadro che ne emerge è lineare: le stesse società che hanno ridisegnato l’economia saudita con Vision 2030 stanno ora trapiantando la loro grammatica tecnocratica a Gaza, trasformando la ricostruzione in un business plan su larga scala, confezionato nei consigli di amministrazione occidentali e implementato sul terreno con contractor privati.
Il disegno economico, dunque, non è filantropia, ma finanza di sviluppo con rendimenti attesi. L’ossatura è ormai chiara: fondazioni-ombrello come la GHF; trust decennali guidati da Washington; fondi sovrani del Golfo come finanziatori; consulenti globali e contractor come progettisti e implementatori. È l’anatomia di una zona speciale: uno spazio dove la pace non si misura più in diritti politici, ma in indicatori di investimento; dove la prosperità promessa non corrisponde alla libertà, ma alla dipendenza dai flussi di capitale.
6. Oltre mainstream e contro-informazione: perché la nostra inchiesta diverge
La propaganda mainstream legge il piano come promessa di pace e ricostruzione: ospedali, scuole, aiuti, investimenti. Una narrazione lineare e rassicurante, che presenta la “Nuova Gaza” come laboratorio di stabilità sotto l’egida internazionale.
La contro-informazione militante, al contrario, lo riduce a un progetto di annientamento totale, a un genocidio mascherato. Una chiave di lettura che intercetta la rabbia e la disperazione, ma che spesso si ferma alla superficie emotiva, rinunciando ad analizzare la sofisticazione tecno-finanziaria del progetto.
Questa inchiesta propone un terzo sguardo. Qui la “pacificazione” non appare come un gesto filantropico, ma come una strategia di dominio: un meccanismo di assoggettamento che trasforma Gaza in uno spazio amministrato, dove la sicurezza non garantisce libertà, bensì funziona da ingranaggio per incardinare l’enclave nei circuiti della finanza globale. La ricostruzione, lungi dall’essere neutrale, coincide con la normalizzazione economica di un territorio e con la subordinazione dei diritti politici a metriche di stabilità e di rendimento.
È in questo contesto che l’ipotesi di Hamas come opposizione controllata diventa un filo interpretativo coerente. Non una congettura arbitraria, ma un’ipotesi supportata da fonti convergenti: dal New York Times del 1981, che riportava le ammissioni del governatore militare di Gaza Yitzhak Segev circa i fondi israeliani destinati a moschee e associazioni religiose, al Washington Post del 2014, che sottolineava come Israele avesse contribuito a creare le condizioni per l’ascesa di Hamas, fino alle dichiarazioni di Avner Cohen del 2009: «Hamas, con mio grande rammarico, è una creazione di Israele». Il ciclo è lineare: prima utile contro l’OLP, poi strumento di contenimento, infine rottamato perché divenuto un costo reputazionale insostenibile.
Le fonti aperte non provano una regia onnipotente del Mossad in ogni fase; mostrano però decisioni istituzionali deliberate, prese con finalità contingenti, che hanno abilitato e strumentalizzato l’islamismo politico a Gaza, producendo il noto effetto-boomerang.
Perciò la mia analisi si colloca fuori dalle due propagande: rifiuta tanto il trionfalismo umanitario quanto il catastrofismo urlato. Segue invece la filiera documentale, la logica degli incentivi e la cronologia dei dispositivi, dimostrando che la verità geopolitica non si trova nei comunicati ufficiali né negli slogan di protesta, ma nelle architetture invisibili del potere, là dove la pace diventa un indice di stabilità e la guerra una variabile d’investimento.
Conclusione: La Yalta invisibile
Mettendo insieme i tasselli, la figura si ricompone. Il piano ufficiale istituisce un «Consiglio per la pace» (Board of Peace) con Tony Blair, volto diplomatico e rispettabile di un progetto che nasce nei centri strategici legati ai capitali del Golfo. La parte finanziaria è affidata, seppure indirettamente, a Jared Kushner e al Public Investment Fund saudita, legati da investimenti miliardari che hanno già saldato l’agenda trumpiana ai petrodollari di Mohammed bin Salman. Sul terreno operano la Gaza Humanitarian Foundation e i contractor privati, mentre il «Grande fondo fiduciario» (GREAT Trust) — nelle bozze trapelate — disegna la cornice fiduciaria: dieci anni di tutela esterna, città intelligenti, rilocalizzazioni “volontarie” e ritorni garantiti per capitali privati e sovrani.

Attorno a questo nucleo si muove la filiera finanziaria globale: BlackRock, JPMorgan, Goldman Sachs, Rothschild & Co (Sassoon). Non dominano il PIF, ma ne intermediano i flussi, ne strutturano i veicoli, ne incassano le commissioni. È la continuità funzionale delle antiche dinastie bancarie trasmigrate nei colossi del capitalismo transnazionale: ciò che i Rothschild e i Sassoon furono per i prestiti sovrani ottocenteschi, BlackRock e Goldman Sachs lo sono oggi per i fondi sovrani arabi.
Hamas, un tempo creatura utile a dividere i palestinesi, oggi viene sacrificato. La sua parabola — da opposizione controllata a boomerang ingovernabile — si chiude qui, funzionale alla nascita di un protettorato tecnocratico travestito da ricostruzione.
Non siamo davanti a un semplice piano umanitario, ma a un accordo geopolitico non dichiarato pubblicamente. Parlare di Yalta 2.0 — come peraltro ho già fatto all’inizio dell’anno — non è un vezzo retorico: come Sykes-Picot nel 1916 o Yalta nel 1945, l’accordo vero si firma prima e si mostra solo dopo. Anche la celebre conferenza di Yalta fu la scena ufficiale di intese precedenti, negoziate in incontri riservati già dal 1943. Oggi accade lo stesso: Gaza potrebbe essere la scenografia di un compromesso già maturato nelle stanze segrete delle élite.
Gaza diventa così il banco di prova del nuovo ordine mondiale multipolare: la pace coincide con l’obbedienza, la prosperità promessa con la dipendenza. Eppure, dietro la solennità delle dichiarazioni, ciò che si presenta come compiuto appare in realtà ancora in gestazione. La retorica proclama una svolta storica, ma la sostanza resta incerta: senza un accordo con il nemico la pace rimane un miraggio, mentre l’unico cantiere davvero operativo è quello economico-finanziario. In questo paradosso si coglie l’essenza del piano: incompleto sul piano politico, ma già avanzato nelle logiche del capitale, dove gli ingranaggi della ricostruzione girano con più solidità delle promesse di sovranità.
Il resto lo riveleranno, come sempre, gli archivi.
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