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© Filippo Chinnici
Washington, 21 maggio 2025: una messa in scena? Analisi critica dell’attentato al Museo Ebraico e dei suoi inquietanti retroscena
Il 21 maggio 2025, due giovani funzionari dell’ambasciata israeliana a Washington, Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco all’uscita del Capital Jewish Museum, nel cuore della blindata capitale statunitense. Pochi minuti dopo, il presunto attentatore, Elias Rodríguez, è stato arrestato sul posto senza opporre resistenza. Ma dietro la dinamica apparente di un crimine ideologico isolato, si celano, secondo me, elementi di palese incongruenza che non possono essere derubricati a coincidenze o inefficienze operative.
L’analisi dei fatti, delle tempistiche, delle modalità di intervento e del trattamento mediatico rivela, sempre secondo me, una messa in scena perfettamente orchestrata: l’arresto coreografico, la narrazione già pronta, l’assenza di protocolli antiterrorismo, il contesto simbolico dell’evento e la tempestiva capitalizzazione politica sollevano il sospetto fondato di una operazione sotto falsa bandiera, concepita non per colpire due individui, ma per plasmare la percezione pubblica e reindirizzare l’opinione occidentale.
In questo articolo ho esaminato dieci punti di frattura tra i fatti osservabili e la narrativa ufficiale. Non si tratta di sostituire un racconto ad un altro, ma di restituire al lettore il diritto al dubbio fondato, all’indagine indipendente, e soprattutto alla libertà di riconoscere — dietro il dramma — la struttura del potere che ne dirige la rappresentazione.
Contenuti
- 1. Un arresto che disattende ogni protocollo per soggetti ad alto rischio
- 2. Un attacco in una delle zone più sorvegliate d’America: possibile infiltrazione o deliberata omissione di sorveglianza?
- 3. L’assenza di protezione per lo staff dell’ambasciata: negligenza imperdonabile o omissione funzionale?
- 4. Un manifesto postumo? L’anomalia cronologica che alimenta l’ombra dell’intenzionalità
- 5. Un arresto in posa: l’unico video disponibile e la regia dell’evento
- 6. Perché la “crisi dell’antisemitismo globale” è stata proclamata prima ancora che emergessero i fatti?
- 7. Le connessioni ideologiche di Rodríguez: radicalizzazione spontanea o suggestione programmata?
- 8. Perché colpire durante un evento dell’American Jewish Committee?
- 9. Frattura e riparazione – Una lettura simbolico-mistica dell’attacco
- 10. Ricadute previste – Chi guadagna dal panico e dalla narrativa costruita
- Conclusione
- Appendice – La voce dell’ideologia: dichiarazioni che smascherano il progetto genocidario
- Allegati
1. Un arresto che disattende ogni protocollo per soggetti ad alto rischio
Le immagini diffuse dell’arresto di Elias Rodríguez mostrano un quadro sorprendentemente anomalo: l’uomo, sospettato di aver appena assassinato due membri dello staff dell’ambasciata israeliana in un museo ebraico, non è trattato come una minaccia attiva. Appare in piedi, disarmato, calmo, privo di vincoli, circondato da agenti che, più che eseguire un fermo ad alto rischio, sembrano interagire con lui in tono quasi confidenziale. Non vi è traccia di perquisizione immediata, di isolamento dell’area, di evacuazione dei civili o di verifica del rischio esplosivo — misure basilari in ogni operazione anti-terrorismo. E se l’attentatore fosse stato imbottito di esplosivo?
Sebbene non esista un manuale unico e vincolante, esistono standard operativi riconosciuti, come il FBI Domestic Investigations and Operations Guide (DIOG, 2021), che stabiliscono i livelli di intervento proporzionati a ogni minaccia. In parallelo, lo Standard Tattico NTOA per Operazioni Critiche prescrive che ogni sospetto coinvolto in azioni ideologicamente motivate, con possibilità di armamento o detonazione, venga trattato secondo procedure precise: isolamento, neutralizzazione, disarmo e perquisizione immediata. E tutto questo non è stato fatto in questo caso.
Lo stesso sito dell’FBI dedicato a Tattiche e Addestramento chiarisce che in scenari ad alto rischio devono essere coinvolti team specializzati (HRT, SWAT), con piena autorizzazione all’uso della forza letale se necessario. Tuttavia, nel caso di Rodríguez, l’assenza di qualunque misura contenitiva o difensiva suggerisce, secondo me, non una distrazione o un’impreparazione, bensì una deliberata sospensione dei protocolli. Se la minaccia era reale, l’arresto avrebbe richiesto prontezza, rigidità, e controllo assoluto dello spazio.
La domanda che si impone allora non è solo procedurale, ma politica: perché un presunto terrorista viene trattato con tale mitezza? La scena dell’arresto sembra rispondere non a una necessità di sicurezza, ma a una logica rappresentativa — come se ciò che contava non fosse proteggere, ma mostrare.
2. Un attacco in una delle zone più sorvegliate d’America: possibile infiltrazione o deliberata omissione di sorveglianza?
Il Capital Jewish Museum, teatro dell’attentato, sorge in una delle aree più presidiate di Washington, a poche centinaia di metri dal J. Edgar Hoover Building, sede centrale dell’FBI. L’intero quartiere rientra in una delle cosiddette Federal Protection Zones, aree classificate ad alto valore strategico, soggette a controllo video-continuo, presenza interforze e pattugliamento visibile e non visibile (spiegherò nel prossimo paragrafo di cosa si tratta). In tale contesto urbano, l’azione di un soggetto armato e isolato che riesce ad assassinare due membri dello staff dell’ambasciata israeliana senza alcuna intercettazione preventiva appare più che improbabile: appare illogica.
A rendere la circostanza ancora più sospetta è un fatto documentato: pochi giorni prima della sparatoria, il museo aveva ricevuto $30.000 di fondi federali destinati all’incremento delle misure di sicurezza, come previsto dai programmi speciali del Dipartimento per la Sicurezza Interna degli Stati Uniti (DHS). Il New York Post riporta che tali fondi facevano parte del Nonprofit Security Grant Program (NSGP) di FEMA/DHS, pensato per proteggere obiettivi sensibili da minacce terroristiche.
La domanda, dunque, non è se l’area fosse sorvegliata — lo è per definizione — ma perché tale sorveglianza si sia rivelata inoperante. Come ha potuto Elias Rodríguez attraversare indisturbato quel perimetro che riprende persino le mosche, armato e intenzionato a colpire due operatori legati a una rappresentanza diplomatica, nel cuore della capitale federale? Perché nessun sistema di allerta ha funzionato? Dove si trovavano i pattugliamenti interni, i checkpoint mobili, i sorveglianti in borghese?
A meno di ipotizzare una catena di fallimenti simultanei e sistemici (tecnologici, umani, logistici), l’ipotesi che va considerata è quella più scomoda: che l’assenza di deterrenza sia stata una condizione favorita, se non deliberatamente consentita.
Non si tratta, qui, di sostenere che l’attacco sia stato orchestrato in ogni suo dettaglio da apparati interni, ma che il livello di permeabilità mostrato da uno dei luoghi più sensibili della capitale americana e più sorvegliata al mondo non è compatibile con un attentato imprevisto. È compatibile, semmai, con una zona franca temporanea, creata affinché l’attacco accadesse, fosse registrato, e potesse essere immediatamente interpretato.
3. L’assenza di protezione per lo staff dell’ambasciata: negligenza imperdonabile o omissione funzionale?
Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim non erano turisti né funzionari civili: erano, secondo le fonti israeliane, impiegati presso l’ambasciata d’Israele a Washington, in un periodo di tensione massima per la politica estera dello Stato ebraico, coinvolto attivamente nel conflitto a Gaza. La loro presenza in un museo ebraico, durante un evento patrocinato da un ente ufficiale sionista come l’American Jewish Committee, in un contesto di allerta diplomatica e rischio attentati, avrebbe dovuto implicare automaticamente la protezione armata e il monitoraggio ravvicinato da parte di personale qualificato.
Secondo le direttive del Bureau of Diplomatic Security (FAM 01-260), ogni rappresentanza diplomatica statunitense o straniera su suolo americano, in caso di minaccia attiva o in periodo di escalation, può richiedere e ottenere un protocollo di protezione rafforzata, che prevede l’accompagnamento con scorta visibile o invisibile, l’uso di auto blindate, l’interfaccia con agenti federali e, in casi specifici, la supervisione da parte di operatori antiterrorismo. Con scorta invisibile – detta in gergo operativo low profile escort o shadow protection –, si intende una forma di sorveglianza non evidente al pubblico svolta da agenti in borghese o personale della sicurezza diplomatica che segue e monitora il soggetto da proteggere a distanza ravvicinata, mantenendo però un basso impatto visivo e mediatico. Si tratta di una prassi comune in ambienti diplomatici, specie quando si desidera garantire la sicurezza senza attirare attenzione o creare panico.
Ancor più specifica è la normativa del 22 USC §4865, che obbliga le strutture diplomatiche e consolari degli Stati Uniti a coordinarsi per garantire la sicurezza del proprio personale e di quello straniero in presenza di minacce note, e a implementare misure aggiuntive in caso di eventi pubblici.
Infine, un’analisi pubblicata dall’AFSA – American Foreign Service Association evidenzia come le missioni diplomatiche in aree ad alto rischio adottino generalmente un paradigma ultra-conservativo nei movimenti, riducendo al minimo gli spostamenti pubblici, e assicurando che ogni presenza visibile del personale sia sorvegliata, se non scortata.
Tutto ciò rende l’assenza di una qualunque forma di protezione per Lischinsky e Milgrim non solo inspiegabile, ma inaccettabile. Non vi era alcuna pattuglia, nessun mezzo blindato, nessuna presenza discreta di scorta. La domanda è inevitabile:
Qualcuno ha ordinato che fossero lasciati soli?
E se sì, a quale scopo?
Tanto più che, come riportato dal Financial Times, nelle ore immediatamente successive all’attacco, lo stesso governo israeliano ha ordinato il rafforzamento della sicurezza di tutte le sedi diplomatiche nel mondo, confermando implicitamente che le misure precedenti erano insufficienti.
Se un’assenza tanto clamorosa non è dovuta a errore, deve allora essere interpretata come una condizione predisposta per permettere l’attacco, affinché avvenisse nel modo più “pulito” possibile — senza interferenze, senza scontri a fuoco, senza complicazioni: un’esecuzione simbolica, e quindi funzionale a una narrazione da costruire subito dopo.
4. Un manifesto postumo? L’anomalia cronologica che alimenta l’ombra dell’intenzionalità
Tra gli elementi più enigmatici dell’intero evento, vi è la comparsa di un manifesto ideologico — intitolato Escalate for Gaza, Bring the War Home («Intensificare per Gaza, portare la guerra a casa») — attribuito a Elias Rodríguez e rapidamente circolato su un account X (ex Twitter) non verificato. Contrariamente a quanto inizialmente diffuso da alcuni media, non si tratta di un testo pubblicato pochi minuti prima dell’attacco, bensì di un documento datato 20 maggio, due giorni prima della sparatoria, ma diffuso solo successivamente all’attacco — e prima ancora che il nome dell’attentatore venisse comunicato dalle autorità.
Secondo quanto documentato dal Washington Post e da The Forward, il manifesto è stato caricato su X (Twitter) alle ore 22:00 del 21 maggio 2025, orario di Washington D.C., corrispondente alle 05:00 del 22 maggio 2025, ora israeliana — circa due ore prima che le autorità identificassero pubblicamente Rodríguez come sospettato dell’attacco al Capital Jewish Museum.
Tale sequenza temporale è dirompente: mina la credibilità della paternità diretta del testo e suggerisce che il contenuto fosse stato preparato per essere lanciato a tempo debito, in sincronia con l’attentato omicida, a beneficio della narrazione.
Ciò che sorprende non è solo la qualità retorica del testo — scrittura fluente, strutturazione ideologica coerente, padronanza del linguaggio militante — ma il suo tempismo perfetto nel supportare la narrativa immediata diffusa dai media filo-israeliani: ovvero, che si trattava di un attacco motivato dall’odio verso Israele e dall’ideologia antisemita, radicata nella militanza filo-palestinese radicale.
L’assenza di qualsiasi conferma ufficiale sulla paternità del documento, unita alla precisione con cui il manifesto legittima la risposta retorica istituzionale, induce a ipotizzare che ci si trovi non di fronte a un’autentica espressione individuale, ma a un prodotto comunicativo programmato, verosimilmente redatto o approvato da una regia esterna.
Non sarebbe la prima volta: la storia recente è costellata di eventi in cui un documento, una rivendicazione o una traccia mediatica “fortuitamente” coincidente con l’evento ha guidato l’opinione pubblica verso una comprensione immediata e semplificata dei fatti. È il principio cardine delle operazioni di guerra cognitiva: fornire al pubblico non solo un nemico, ma anche la sua voce — prima ancora che questa possa essere verificata.
Che il “manifesto di Rodríguez”, datato 20 maggio e pubblicato solo dopo la sparatoria, venga adottato come prova dell’odio e della radicalizzazione dell’attentatore, senza alcuna verifica tecnico-forense sull’identità dell’autore, è di per sé una deviazione dai criteri elementari di ogni inchiesta giudiziaria.
È dunque lecito chiedersi:
- Chi possedeva le credenziali per pubblicare su quell’account?
- Chi ha garantito la sincronizzazione perfetta tra diffusione del testo e racconto mediatico dell’evento?
- Chi ha avuto interesse a fornire un contesto interpretativo immediato prima ancora che le autorità potessero procedere con una ricostruzione fondata?
Quando la narrazione precede l’indagine, non si è davanti alla verità: si è dentro a una strategia.
5. Un arresto in posa: l’unico video disponibile e la regia dell’evento
L’unica ripresa dell’arresto di Elias Rodríguez è opera di Katie Kalisher, designer locale nota per la sua attività pro-Israele, fondatrice del marchio Shine With Israel – «Splendi con Israele». Il filmato, pubblicato da People e rimbalzato su tutti i media mainstream e pubblicato alla fine del primo paragrafo, mostra il presunto terrorista calmo, non immobilizzato, mentre pronuncia la frase «Free, free Palestine» peraltro con qualche momento di ritardo come se avesse dimenticato la parte da recitare.
L’inquadratura è ravvicinata, stabile, nitida. La scena si svolge in un’atmosfera paradossalmente ordinata: nessuna sirena, nessun cordone, nessuna evacuazione, nessun gesto che evochi l’urgenza o il panico di un’operazione antiterrorismo. Il sospetto, appena autore di un duplice omicidio in un luogo ad alta sorveglianza, viene trattato con misura, circondato da agenti che si muovono senza concitazione, come se svolgessero una procedura pianificata piuttosto che gestire un’emergenza reale.
Le linee guida operative della National Tactical Officers Association (NTOA) stabiliscono chiaramente che l’arresto di un sospetto terrorista deve prevedere la messa in sicurezza dell’intera area, la perquisizione immediata e il contenimento fisico, specialmente in presenza di rischi esplosivi o eventuali complici o tentativi di fuga. Nulla di tutto ciò è visibile.
Ancora più significativo è il fatto che non esistano altri filmati: né da bodycam di agenti federali, né da sistemi di videosorveglianza di cui tutta l’area è piena, né da altre fonti ufficiali. Il pubblico ha avuto accesso solo a quel video, e a nient’altro. Il risultato è che tutta la percezione collettiva dell’arresto è stata veicolata attraverso un’unica lente — quella di una testimone filo-sionista che si è trovata casualmente nel posto giusto al momento giusto; posizionata con tempismo impeccabile.
La stessa Kalisher è stata intervistata da numerosi media, tra cui Fox 5, CBS e BBC, come testimone privilegiata, senza che le sia stata posta alcuna domanda sulla sua presenza o sulla modalità con cui ha potuto documentare l’evento con tale prontezza invidiabile.
In tale contesto, il video non appare come una prova casuale, ma come un asset comunicativo: qualcosa che doveva esistere, che doveva mostrare esattamente ciò che è stato mostrato. Non un’operazione, ma una scena da telefilm, con luci, suoni e movimenti calibrati per la diffusione.
6. Perché la “crisi dell’antisemitismo globale” è stata proclamata prima ancora che emergessero i fatti?
Nelle ore immediatamente successive alla sparatoria al Capital Jewish Museum, ancor prima che le autorità fornissero dettagli ufficiali sull’identità del sospetto o sul movente dell’attacco, la narrativa mediatica aveva già preso forma. Testate dell’establishment sionista come The Forward, The Jerusalem Post e Times of Israel hanno diffuso titoli che non lasciavano spazio al dubbio: si trattava di antisemitismo, di odio organizzato, di guerra portata nel cuore dell’Occidente.
Ma come è possibile che, senza alcun dato forense, investigativo o conferma ufficiale, una simile cornice interpretativa fosse già disponibile, diffusa e condivisa da più voci internazionali? Chi ha dettato questa sincronia editoriale? Perché non si è lasciato spazio a una fase di accertamento, dubbio o verifica? E, soprattutto, a chi giova una reazione mediatica così rapida da precedere le conclusioni dell’inchiesta?
Ciò che si osserva qui è un meccanismo già noto: la costruzione preventiva di senso. In una democrazia dell’immagine, la cornice viene prima del contenuto. Quando la spiegazione di un crimine è immediata, uniforme e ideologicamente utile, è lecito domandarsi se non fosse già pronta prima ancora che il crimine si compisse.
7. Le connessioni ideologiche di Rodríguez: radicalizzazione spontanea o suggestione programmata?
Le autorità hanno confermato che Elias Rodríguez, 31 anni, residente a Chicago, aveva espresso online posizioni critiche verso Israele e gli Stati Uniti, condividendo contenuti filo-palestinesi e riferimenti alla guerra di Gaza. Tuttavia, a oggi non risultano prove documentate di un suo coinvolgimento diretto in reti estremiste, né appartenenze formali a organizzazioni terroristiche.
Secondo fonti della polizia federale riportate da New York Post e Washington Post, Rodríguez avrebbe mostrato ammirazione per Aaron Bushnell, il militare statunitense che si diede fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington nel febbraio 2024, gridando Free Palestine. Tale gesto, divenuto simbolico per una certa frangia dell’attivismo radicale, sembrerebbe aver esercitato un’influenza ideologica o emulativa su Rodríguez.
Ciò che emerge dai profili online a lui attribuiti è una narrativa fortemente politicizzata, ma non sistematica né legata a cellule note. Si tratta di un caso limite: sufficiente per evocare il terrorismo ideologico, insufficiente per dimostrare una militanza strutturata.
Tale ambiguità apre a un’ipotesi più insidiosa: e se il profilo di Rodríguez fosse stato “indirizzato” — mediaticamente, culturalmente o addirittura tecnologicamente — verso un’escalation annunciata? L’assenza di prove organiche può apparire sospetta quanto la loro abbondanza.
Del resto, nella moderna guerra ibrida, il bersaglio ideale non è più l’agente segreto addestrato, ma l’uomo solo, suggestionabile, fragile, trasformabile in detonatore narrativo. La radicalizzazione non necessita più di strutture, ma solo di canali e di sceneggiature. E allora la vera domanda diventa:
- Rodríguez ha agito per convinzione, o per indottrinamento programmato?
- È stato attore, burattino o strumento?
Se le sue connessioni sono deboli, è solo perché nessuna rete lascia visibili i fili di chi muove le mani.
8. Perché colpire durante un evento dell’American Jewish Committee?
L’attacco non ha avuto luogo in un momento qualunque. Il duplice omicidio è avvenuto al Capital Jewish Museum durante un evento patrocinato dall’American Jewish Committee (AJC), una delle principali organizzazioni sioniste negli Stati Uniti, nota per il suo attivismo all’espansione dello Stato di Israele. Secondo quanto riportato da WUSA9 e Haaretz, l’incontro rientrava in una serie di iniziative per rafforzare la solidarietà internazionale verso Israele nel contesto della guerra in corso a Gaza.
La scelta del luogo e del momento amplifica l’effetto mediatico dell’attacco: un museo ebraico, un evento istituzionale, due funzionari israeliani colpiti nel cuore della capitale americana. La scena si presta a una narrazione immediata, già pronta. Il contesto suggerisce alcune domande:
- L’attentatore ha scelto consapevolmente questo scenario, o lo scenario è stato reso disponibile per lui?
- Perché in un evento pubblico a rischio simbolico non erano presenti né sicurezza visibile né misure straordinarie?
Un’azione come questa, in quel preciso contesto, ha contribuito a rafforzare una narrativa di vulnerabilità e assedio, proprio quando l’opinione pubblica internazionale cominciava a criticare apertamente la condotta israeliana a Gaza. Il risultato è stato un’inversione retorica: Israele da soggetto attivo del conflitto torna a figurare come vittima, proprio sul piano dell’immaginario.
Chiunque abbia scelto tempo e luogo sapeva che l’effetto sarebbe stato più grande del gesto.
9. Frattura e riparazione – Una lettura simbolico-mistica dell’attacco
Al di là delle evidenze politiche e mediatiche, l’attacco al Capital Jewish Museum può essere letto anche in chiave simbolico-mistica, secondo una tradizione ebraica che interpreta la storia come dinamica di rottura e ricomposizione. Alcuni elementi della Kabbala lurianica, sviluppata nel XVI secolo da Yitzhak Luria, descrivono la realtà come frutto di una frattura primordiale (shevirat ha-kelim), che ha disperso frammenti di luce sacra nel mondo. Il compito dell’uomo è raccogliere e riorientare queste scintille attraverso atti di riparazione (tikkun).
In questa prospettiva, un attentato compiuto nel cuore di un museo ebraico, durante un evento pubblico a forte valore identitario, può essere interpretato come una rottura rituale all’interno di uno spazio simbolico. Il museo conserva la più antica sinagoga di Washington ed è sede della trasmissione storica dell’identità ebraica americana: colpirlo significa colpire il cuore stesso della narrazione collettiva. È un vaso che si frantuma.
Ma chi ha voluto che quel vaso si rompesse?
In ambienti in cui l’azione pubblica si intreccia con la strategia simbolica, un attentato come questo può assumere i tratti di un atto preordinato, non solo per uccidere, ma per attivare un linguaggio esoterico preciso. In tale prospettiva, l’attacco potrebbe rientrare in una di due matrici mistiche distinte:
- La linea messianica ortodossa della Kabbala lurianica, interpretata da alcuni ambienti legati al movimento Chabad-Lubavitch, che vedono nella frattura storica uno strumento per accelerare la venuta del Messia, attraverso la restaurazione dell’unità d’Israele e la centralità rituale dello Stato ebraico.
- Oppure la corrente più oscura e trasgressiva dei sabbatiani-frankisti, per cui la violazione dell’ordine costituito e la produzione del caos sono atti teurgici necessari al disvelamento finale. In tale visione, la violenza rituale non è aberrante, ma necessaria per affrettare la manifestazione della luce nascosta.
In entrambi i casi, l’attentatore non è il soggetto centrale, ma un vettore: attore sacrificabile o complice marginale, selezionato per il ruolo che doveva interpretare. Il vero soggetto è chi ha scelto il palcoscenico, costruito la narrazione e controllato il linguaggio del simbolo.
La domanda non è più «chi ha sparato?», ma: chi ha scritto la scena? E soprattutto: quale dottrina ha ispirato il copione?
10. Ricadute previste – Chi guadagna dal panico e dalla narrativa costruita
Non sono passate nemmeno ventiquattro ore dalla sparatoria al Capital Jewish Museum e già il discorso pubblico si è compattato in una forma univoca e disciplinata. Le reazioni politiche e istituzionali sono giunte in simultanea, come voci di un coro: non una dissonanza, non un’incertezza, non uno spazio per l’attesa. Il messaggio era pronto: l’evento è un nuovo segnale dell’antisemitismo globale, richiede leggi più dure, e giustifica la compressione del dissenso.
Donald J. Trump è stato il primo a pronunciare le parole-chiave.
Questi orribili omicidi a D.C., basati ovviamente sull’antisemitismo, devono finire, ORA! L’odio e il radicalismo non hanno posto negli Stati Uniti.
Poi, in rapida successione, il vicepresidente J.D. Vance, membri dell’amministrazione Trump, l’ambasciata israeliana e poi il premier israeliano Benjamin Netanyahu, e a seguire: Keir Starmer, Primo Ministro del Regno Unito, Emmanuel Macron, Presidente della Francia, Friedrich Merz, Cancelliere della Germania, Kaja Kallas, Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, Ulf Kristersson, Primo Ministro della Svezia, Han Duck-soo, Primo Ministro della Corea del Sud, Petr Fiala, Primo Ministro della Repubblica Ceca. La narrazione è scesa come una partitura già scritta. (AP News)
Ma se vi è un coro, vi è una direzione. Chi sono i direttori di questa armonia immediata? Chi ha predisposto la struttura mediatica che permette a voci tanto diverse di cantare all’unisono, nel medesimo registro, prima ancora che i fatti fossero confermati?
L’amministrazione Trump ha già compiuto i primi passi concreti. In nome della sicurezza, ha annunciato la revoca dell’autorizzazione a Harvard per l’ammissione di studenti internazionali, evocando «problemi di sicurezza nazionale». Parallelamente, si prepara una stretta su manifestazioni, contenuti digitali e associazioni studentesche considerate «ostili a Israele».(AP News – Harvard).
Nel momento in cui l’opinione pubblica occidentale si indignava per le due vittime israeliane e i media mainstream si univano al coro dei politici per denunciare l’odio antisemita, passava inosservato un fatto gravissimo accaduto pochi giorni prima: il 15 maggio 2025, le forze armate israeliane avevano ucciso almeno 54 civili palestinesi a Khan Younis, tra cui donne e bambini, secondo quanto riportato dall’Associated Press. Un’operazione aerea che aveva suscitato indignazione internazionale, ma che non ha ricevuto la stessa copertura o partecipazione emotiva da parte dei media occidentali.
In tale contesto, le modalità dell’evento coincidono con i modelli noti delle operazioni sotto falsa bandiera:
- profilo ideologico dell’attentatore già strutturato e manifesto pubblicato in anticipo;
- assenza di resistenza all’arresto e trattamento blando da parte delle forze dell’ordine;
- narrazione mediatica globale già confezionata ancor prima dell’indagine.
Tutti elementi riscontrabili in operazioni come il Lavon Affair, l’attentato di Boston 2013 e Parigi 2015, secondo quanto documentato nel rapporto comparativo: False Flag Playbook – Global Research.
Trump, lungi dall’essere un attore isolato, si muove all’interno di un ecosistema ideologico che da anni lo collega alla rete Chabad-Lubavitch, interprete contemporanea della Kabbala d’azione e sostenitrice di una visione messianica del ruolo d’Israele nel mondo. In questa visione, ogni crisi che coinvolge Israele diventa un’occasione teurgica, e ogni atto di violenza uno strumento per ridefinire l’ordine sociale e spirituale.
In questo quadro, l’attacco non è solo un fatto, ma un segnale utilizzabile, una frattura strumentale alla costruzione di un nuovo equilibrio narrativo. E ciò che si guadagna, ancora una volta, non è giustizia, ma potere: su chi può parlare, su cosa può essere detto, e su chi deve essere messo a tacere.
La domanda che resta, dunque, è sempre la stessa: a chi giova, e secondo quale dottrina?
Conclusione
L’attacco al Capital Jewish Museum non ha lasciato solo due vittime a terra. Ha prodotto una narrazione immediata, un riflesso condizionato globale, una serie di risposte legislative e morali che sembravano attendere da tempo il loro pretesto. In ciò sta forse la sua cifra più inquietante: non tanto nell’evento in sé, quanto nella sua perfetta inseribilità in uno schema noto, replicabile, già tracciato.
La dinamica ricorda troppe altre: profilo pubblico già definito, manifesto ideologico pronto, trattamento blando da parte delle forze dell’ordine, narrazione mediatica sincronizzata. È il copione classico dell’operazione sotto falsa bandiera, ma con un livello ulteriore: quello simbolico e rituale.
Il luogo scelto, il tempo selezionato, la regia delle immagini — tutto suggerisce un significato che trascende la sparatoria. È la rappresentazione di una frattura. Un vaso che si rompe. Una memoria violata. Un’identità esposta al fuoco per rigenerarsi nella paura.
Se si accetta la lettura esoterica dell’evento, l’attentatore non è che un tramite. Un vettore. Un portatore di segni. Ma allora il vero interrogativo resta sospeso: chi ha scritto il linguaggio del segno? Chi ha dettato il tempo del gesto? Chi trae vantaggio da ciò che questo evento significa, più ancora che da ciò che ha prodotto?
Il presente articolo investigativo non offre certezze, ma indizi. Non pretende di svelare ciò che è ancora coperto, ma solleva le domande che i media e le istituzioni eludono.
Perché dietro ogni scena vi è una regia. E dietro ogni regia, una dottrina.
La domanda, ora, non è più «cosa è accaduto?», ma: per quale fine è accaduto?
E chi aveva interesse che accadesse proprio così.
[…contenuto dell’articolo già revisionato…]
Appendice – La voce dell’ideologia: dichiarazioni che smascherano il progetto genocidario
In chiusura, è doveroso riportare una dichiarazione che rivela con crudezza il vero volto del progetto in corso.
«Ogni bambino a Gaza è un nemico. Gaza va occupata, colonizzata e svuotata.»
Queste parole non provengono da un estremista isolato, ma da Moshe Feiglin, già membro della Knesset per il partito Likud e fondatore del partito Zehu, rilasciate il 21 maggio 2025 alla tv israeliana Channel 14.
Si tratta di dichiarazioni gravissime, mai smentite né dal parlamento israeliano né da esponenti dell’attuale governo Netanyahu. Esse gettano una luce impietosa su quanto sta accadendo a Gaza: non un effetto collaterale della guerra contro Hamas, ma un piano deliberato di “svuotamento” etnico, coerente con l’ideologia sionista del cosiddetto Grande Israele, che include l’intera costa mediterranea.
Non è più possibile considerare gli eventi del 7 ottobre 2023 come un semplice attacco terroristico: sempre più fonti e analisti li indicano come un false flag orchestrato da apparati d’intelligence, volto a giustificare la campagna di annientamento attualmente in corso.
Anche Donald Trump, in dichiarazioni pubbliche, ha evocato la deportazione totale della popolazione palestinese da Gaza, prefigurando una trasformazione coloniale della regione in “riviera israeliana”.
«Ogni bambino a Gaza è un nemico. Dobbiamo occupare e colonizzare Gaza. Non deve rimanere nemmeno un bambino palestinese.»
Queste parole non sono semplici provocazioni: sono l’esposizione brutale di una dottrina genocidaria.
Naturalmente, i media mainstream queste cose non le riportano.