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© Filippo Chinnici
Il versetto di Genesi 15:18, in cui Dio promette ad Abramo una terra «dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate», è stato elevato — nel corso del Novecento — a testo programmatico del sionismo politico e, parallelamente, della sua giustificazione teologica più influente: il dispensazionalismo. Tale interpretazione, tuttavia, rappresenta una deriva moderna, estranea tanto all’esegesi ebraica antica quanto alla teologia cristiana apostolica e patristica. Essa costituisce una forzatura ideologica, costruita sul testo per legittimare un’agenda geopolitica, non una lettura fondata sul sensus scripturae.
Nessun credente giungerebbe mai alla dottrina dispensazionalista e al sionismo cristiano con la pura e semplice lettura della Bibbia. Perciò, a partire dal XX secolo, sono sorte nuove edizioni annotate in cui le “note” non aiutano il lettore a comprendere il testo, ma lo piegano a un’ideologia teologica funzionale a un progetto geopolitico. Questa deriva ha inizio con la Scofield Reference Bible (1909), che — per la prima volta nella storia della Bibbia stampata — introduce un apparato esegetico sistematico costruito per giustificare un’agenda geopolitica: l’identificazione tra lo Stato moderno di Israele e le promesse abramitiche, in funzione del progetto sionista.
Il presente studio, mantenendo rigore scientifico ma con stile accessibile, mostra come l’interpretazione etnico-territoriale di Genesi 15:18 sia filologicamente infondata, teologicamente deviante e storicamente anacronistica. L’analisi si articola in tre sezioni, ma è l’ultima — quella esegetico-teologica — a condurre il lettore al cuore del testo, dove l’eredità promessa si rivela realtà spirituale, non appropriazione politico-militare.
È fondamentale notare che il paradigma dispensazionalista non si diffonde più soltanto tramite le note Scofield, ma ha contaminato numerose edizioni moderne della Bibbia annotate. In Italia, Bibbie ampiamente distribuite come la Thompson (ed. Patmos), la McArthur (ed. La Casa della Bibbia) e soprattutto la Spirito & Vita (ed. ADI-Media) veicolano lo stesso impianto dottrinale, trasmettendo — spesso sotto mentite spoglie di “studio” o “approfondimento” — una teologia eretica, estranea al Vangelo e funzionale a un disegno ideologico atlantista e geopolitico sionista.
È quanto mai urgente ritornare al metodo antico e ormai dimenticato persino dai pentecostali che, dopo l’istituzionalizzazione, hanno smarrito la loro vocazione profetica: ossia alla pura e semplice lettura della Bibbia, priva di interpolazioni umane che ne manipolino il pensiero. Occorre tornare a quella fiducia radicale nel Dio vivente, consapevoli che è lo Spirito Santo a guidare in tutta la verità (Gv 16:13). Serve soltanto entrare nella propria cameretta segreta, come disse il Messia, e il Padre che vede nel segreto ricomincerà a parlare (Mt 6:6).

Contenuti
1. Origine moderna di un’anomalia ermeneutica
Contrariamente a quanto sostenuto dalla prospettiva dispensazionalista, che legge in Genesi 15:18 la promessa di un possesso perpetuo della terra da parte dell’Israele etnico, le fonti rabbiniche antiche non ne offrono una lettura incondizionata. Il Sifre su Deuteronomio 11:24 vincola esplicitamente il godimento della terra alla fedeltà al patto, e il Midrash Rabbah su Genesi 12:7 interpreta la perdita della terra come conseguenza del peccato. Tali letture, lontane da ogni giustificazione etno-territoriale, indicano una concezione cultuale e morale della promessa.
L’interpretazione letteralista a fini geopolitici emerge solo con l’avvento del sionismo moderno e viene sistematizzata nel XX secolo dal dispensazionalismo angloamericano, a partire da John Nelson Darby e dalle note della Bibbia Scofield (1909). Quest’ultima, applicando una rigida suddivisione della storia in «epoche», trasferisce le promesse patriarcali all’attuale Stato d’Israele, in una forma che rinnega il compimento cristologico testimoniato dal Nuovo Testamento.
L’esegesi patristica e quella della Riforma, al contrario, leggono nella promessa una figura del compimento spirituale in Cristo e nella comunità redenta. Galati 3:16 è esplicito: la promessa è rivolta a un’unica «semenza», Cristo, e non a una pluralità etnica. La lettura cristocentrica della Scrittura, dunque, risulta incompatibile con ogni tentativo di giustificare politicamente il possesso di una «terra promessa» fisica e terrena su base etnica.
2. Contraddizioni interne al paradigma dispensazionalista
Il paradigma dispensazionalista si presenta come un sistema teologico apparentemente coerente, ma è in realtà segnato da contraddizioni strutturali che lo rendono instabile sul piano esegetico, teologico e logico. La prima di queste risiede nella sua concezione dell’alleanza abramitica come incondizionata e perpetua nel tempo, vincolata a una progenie etnica e a una terra fisica. Tuttavia, lo stesso dispensazionalismo riconosce — nel suo schema a sette dispensazioni — l’esistenza di condizioni di obbedienza in quasi ogni epoca del piano divino. L’idea che soltanto l’alleanza abramitica sia incondizionata, a fronte di un’intera economia biblica fondata su alleanza e responsabilità, risulta internamente incoerente. Se la disobbedienza ha comportato l’esilio (come attestano i libri storici e profetici), perché dovrebbe escludersi un vincolo di fedeltà anche per la permanenza futura in quella medesima terra? Levitico 18:28 ammonisce che, se il popolo si renderà colpevole delle stesse abominazioni delle nazioni precedenti, la terra vi vomiterà fuori; e Deuteronomio 28 lega con precisione chirurgica la benedizione del possesso alla condizione dell’ubbidienza.
In secondo luogo, il dispensazionalismo afferma una netta separazione fra Israele e Chiesa, presentandole come due popoli distinti con promesse parallele: una terrena per Israele, una celeste per la Chiesa. Ma questo dualismo ecclesiologico entra in rotta di collisione con l’unità del popolo redento proclamata dall’intera Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse e rivelata esplicitamente nel Nuovo Testamento, dove la Chiesa è chiamata «sacerdozio regale» ed «erede delle promesse» (1P 2:9; Ga 3:29), e dove «non c’è più né Giudeo né Greco» (Ga 3:28). Se le promesse restano in vigore anche al di fuori di Cristo, allora si ammette implicitamente una via parallela alla salvezza, senza Cristo, contraddicendo l’assunto della centralità del Messia. Paolo apostolo insegna che non tutti i discendenti secondo la carne sono Israele, e che solo i figli della promessa, ossia i credenti in Cristo, sono eredi (Romani 9:6–8). La promessa non si radica in una genealogia etnica, ma in una fede obbediente (Abacuc 2:4; Ro 1:17; 3:26; Ga 3:11; Eb 10:38).
Una terza incoerenza si manifesta nell’interpretazione iper-letterale delle promesse veterotestamentarie, che il dispensazionalismo applica rigorosamente solo quando funzionali alla sua visione geopolitica. Le stesse scuole dispensazionaliste adottano però letture simboliche, tipologiche o spiritualizzanti per altri testi (es. il Cantico dei Cantici o l’Apocalisse), rivelando un’applicazione selettiva del principio iperletterale. Ne risulta una metodologia esegetica non regolata da criteri scientifici, ma da priorità ideologiche.
Infine, la dottrina delle «tre dispersioni e tre restaurazioni» — affermata nella nota di Scofield a Genesi 15:18 — poggia su una ricostruzione storica arbitraria, che non trova alcun riscontro né nel testo ebraico né nella letteratura intertestamentaria o rabbinica. È un costrutto sistematico che pretende di essere dedotto dalla Scrittura, ma che in realtà le è estrinseco. Anche sul piano storico, l’identificazione dello Stato moderno di Israele con il compimento profetico presuppone un’identità etnico-religiosa che lo Stato stesso, per struttura giuridica e composizione, non possiede. In tal senso, il dispensazionalismo si fa interprete non tanto di una visione biblica, quanto di una lettura teologica adattata a una narrazione politico-militare contemporanea.
Le contraddizioni interne al sistema dispensazionalista non sono semplici divergenze interpretative: sono falle strutturali che lo rendono teologicamente instabile, esegeticamente inaffidabile e spiritualmente pericoloso. Esse rivelano che, lungi dall’essere un paradigma fedele alla Scrittura, si tratta di un impianto dottrinale fabbricato per sostenere un’agenda extrabiblica sotto le spoglie dell’autorità biblica.
2.1. La falsa dottrina delle «tre dispersioni e tre restaurazioni»
La nota Scofield su Genesi 15:18 afferma che la promessa fatta ad Abramo riguardo alla terra deve ancora compiersi pienamente, sostenendo che Israele abbia subito «tre dispersioni» seguite da «tre restaurazioni»: la prima al tempo dell’esilio assiro e babilonese, la seconda con la distruzione del Tempio nel 70 d.C., e la terza, vagamente allusa, nella diaspora postmedievale. L’attuale ritorno degli ebrei in Palestina sarebbe quindi la “terza restaurazione”, definitiva e profeticamente prevista.
Tale dottrina è del tutto priva di fondamento testuale. La Bibbia non parla mai di «tre dispersioni» né di «tre restaurazioni». L’apparente tripartizione di questa affermazione è una costruzione posticcia, senza riscontro nei testi biblici canonici, tanto meno in Genesi 15:18, che è una promessa e non una profezia scandita in fasi. Nessun profeta, nessun apostolo ha mai insegnato una sequenza di tre esili e tre ritorni. Non è esegesi, ma eisegesi.
Inoltre, la cosiddetta «terza restaurazione» manca dei criteri teologici essenziali stabiliti dalla Scrittura per il ritorno del popolo di Dio: ravvedimento, rinnovamento del cuore, restaurazione del culto e riconoscimento del Messia (cf. De 30:1–6; Ez capp. 36–37; Za 12:10). Nulla di ciò si è adempiuto nella fondazione dello Stato di Israele nel 1948. Al contrario, essa avvenne in assenza di fede, per opera di un movimento dichiaratamente laico e nazionalista, persino anticristiano, sostenuto da potenze coloniali occidentali.
La pretesa di vedere in questo evento l’adempimento della promessa abramitica contraddice non solo l’economia del Nuovo Testamento, ma anche la struttura stessa dell’Antico. La restaurazione biblica non è mai semplicemente geografica o politica: è sempre fondata su un rinnovato patto di alleanza con Dio e sull’effusione dello Spirito santo. Senza queste condizioni, ogni ritorno resta incompleto, e ogni possesso, effimero.
2.2. Obiezioni ebraiche all’uso politico di Genesi 15:18
Anche all’interno dell’ebraismo, importanti scuole di pensiero hanno rigettato l’interpretazione etnico-territoriale della promessa abramitica. I movimenti Neturei Karta e Satmar, appartenenti all’ebraismo ortodosso, fondano la loro opposizione al sionismo sull’insegnamento di Ketubot 111a (Talmud Bavli), che proibisce ogni tentativo umano di accelerare la redenzione o di forzare il ritorno a Sion prima dell’avvento del Messia.
Joel Teitelbaum, rabbino e fondatore della dinastia Satmar, nel suo influente Vayoel Moshe, denuncia il sionismo come eresia escatologica, una deviazione idolatrica dalla speranza messianica fondata sulla Torah. La restaurazione della terra, secondo tale prospettiva, non può essere separata dal ravvedimento e dalla sottomissione al Dio d’Israele.
Anche voci più filosofiche e culturali, come quelle di Martin Buber e Yeshayahu Leibowitz, hanno criticato l’identificazione tra promessa divina e rivendicazione geopolitica. Buber interpretava la «terra promessa» come simbolo di una vocazione etica, non come proprietà esclusiva; Leibowitz, da parte sua, denunciava la riduzione idolatrica della religione a ideologia nazionalista.
Queste letture dimostrano che l’appropriazione dispensazionalista di Genesi 15:18 non è solo anti-biblica e anti-cristiana, ma anche incompatibile con significative tradizioni ebraiche. La «terra promessa», più che possedimento, è responsabilità; più che diritto, è chiamata alla santità.
3. Analisi filologica
L’esegesi dispensazionalista di Genesi 15:18 si fonda su presupposti teologici fallaci alla luce dell’analisi filologica del testo. Essa rappresenta una costruzione ideologica posticcia che deforma la grammatica e la sintassi dell’ebraico biblico per piegarle a un impianto geopolitico estraneo alla rivelazione. Tre sono i nuclei lessicali e strutturali che, se compresi secondo il rigore scientifico della linguistica semitica classica e comparata, dissolvono ogni pretesa giustificazione della lettura scofieldiana: il verbo perfettivo נָתַתִּי (nātattī), l’espressione pattizia כָּרַת בְּרִית (kārat berît), e il sostantivo זֶרַע (zéraʿ).
In quel giorno l’Eterno fece un patto (kārat berît) con Abramo, dicendo: “Io do (nātattī) alla tua discendenza (zéraʿ) questo paese, dal torrente d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate” (Nuova Diodati, Genesi 15:18)
3.1. נָתַתִּי (nātattī): perfetto profetico e certezza della promessa
Il verbo נָתַתִּי (nātattī), forma perfetta del Qal, derivata dalla radice trilittera נ־ת־ן (n–t–n), significa letteralmente «io ho dato». Si tratta di una prima persona singolare al perfectum, tempo che, nel contesto sintattico e narrativo della Bibbia ebraica, designa abitualmente un’azione compiuta nel passato. Tuttavia, nel quadro rivelativo del versetto, tale valore è amplificato da una sfumatura nota in filologia semitica come perfectum propheticum — ossia l’uso del tempo perfetto per annunciare con solennità e certezza un evento che, pur appartenendo cronologicamente al futuro, viene presentato come già realizzato in virtù del decreto divino, come sostengono tutte le principali grammatiche di ebraico da Joüon–Muraoka a Gesenius–Kautzsch–Cowley.
Questa scelta grammaticale non è né accidentale né poetica: essa esprime teologicamente la irreversibilità della promessa, inscrivendola nell’eternità del consiglio divino (Gb 42:2; Is 14:26; 46:10, 11; At 2:23; 4:28; Ef 1:11). La concessione della terra alla «discendenza» (זֶרַע, zéraʿ) non si fonda dunque su una presa di possesso etnico o politico, ma su un atto irrevocabile della volontà divina, radicato nell’economia della redenzione.
Affermare, come fa la nota della Bibbia Scofield, che «io ho dato» – נָתַתִּי (nātattī) – giustifichi un diritto geografico perpetuo e incondizionato a favore di un’entità nazionale moderna, significa alterare il senso grammaticale (Scofield era un ignorante nella conoscenza dell’ebraico) sia il carattere cultuale e unilateralmente salvifico del patto di Genesi 15. Le note Scofield trasformano la lingua sacra della promessa messianica in un atto notarile di registrazione fondiaria, riducendo l’escatologia biblica a geopolitica. Un tale uso del testo sacro non è solo filologicamente infondato ma anche teologicamente pericoloso.
3.2. כָּרַת בְּרִית (kārat berît): gesto sacrificale, non contratto politico
L’espressione ebraica כָּרַת בְּרִית (kārat berît) tradotta «fece un patto», letteralmente significa: «tagliare un patto o alleanza». Essa costituisce una formula tecnica ricorrente in tutta la Bibbia ebraica, che indica la stipulazione solenne di un patto mediante un rito sacrificale mediante il sacrificio di animali, recisi in due metà, tra le quali le parti contraenti erano chiamate a passare (cf. Genesi 15:10, 17). Tali pratiche sono ampiamente attestate nei trattati ittiti e mesopotamici del II millennio a.C., ma nel racconto biblico l’elemento più sorprendente è che soltanto Dio attraversa le vittime, manifestandosi in forma teofanica tramite una fornace fumante e una fiamma ardente. Abramo, invece, è immerso in un sonno profondo e tremendo (tardēmāh), simbolo della sua totale passività. L’alleanza, dunque, è interamente fondata sull’iniziativa divina: sul disegno immutabile di Dio (Gb 42:2; Is 14:26; 46:10, 11; At 2:23; 4:28; Ef 1:11) che si rivela progressivamente all’interno della pagine della Bibbia.
Scofield, distorce il significato del gesto cultuale trasformandolo in un contratto geopolitico. Nella sua nota, egli afferma che il «dono del paese» va letto in parallelo con una sequenza di tre dispersioni e tre restaurazioni d’Israele, culminanti in una restaurazione futura che vedrà l’instaurazione del regno messianico. In questa prospettiva, l’alleanza con Abramo diventerebbe un titolo giuridico perpetuo al possesso della terra, indipendente dalla condotta del popolo. Tale lettura, divenuta popolare in certi ambienti evangelici grazie ai finanziamenti dei banchieri sionisti, è del tutto estranea al testo.
L’esegesi storica e grammaticale mostra, al contrario, che la promessa della terra non è un assegno in bianco, bensì un’anticipazione profetica della fedeltà di Dio. In Levitico 18:28 e Deuteronomio 28, il possesso della terra è vincolato all’osservanza dell’alleanza. Israele può essere espulso dalla terra per la sua infedeltà, come effettivamente accadde, prima della venuta di Cristo che ne ha adempiuto la promessa. Infatti, il patto è unilaterale. Questo significa che esso è irrevocabile in Dio e non meccanicamente realizzabile a prescindere dall’obbedienza. Esso rientra nel disegno di Dio.
Scofield, affermando che «Israele sta vivendo la terza diaspora» e che «la restaurazione definitiva avverrà» con il ritorno messianico, sovrappone arbitrariamente il calendario escatologico alla grammatica storica. Egli ignora volutamente che, nella teologia biblica, la terra non è mai fine a sé stessa, ma figura dell’eredità promessa in Cristo (cf. Galati 3:16; Ebrei 4:1-9). Però, alla luce del Nuovo Testamento, sappiamo che l’alleanza con Abramo, lungi dal fondare un diritto nazionale-etnico, prefigura il compimento escatologico e universale dell’opera di redenzione compiuta da Cristo. Non un confine territoriale da restaurare, ma una discendenza per fede da raccogliere.
Ridurre Genesi 15 a una cartografia geopolitica è, pertanto, un tradimento esegetico e teologico: Scofield non interpreta la Scrittura, ma la piega alle esigenze del sionismo premillenarista angloamericano. Scofiled non conosce l’ebraico e nemmeno la Bibbia. La sua interpretazione apertamente ideologica, risulta incompatibile con la semantica dell’ebraico biblico, con la fenomenologia delle alleanze antiche e con l’economia della rivelazione biblica.
3.3. זֶרַע (zéraʿ): un termine teologico, non etnico
Il sostantivo ebraico זֶרַע (zéraʿ, «seme») è morfologicamente singolare e appartiene alla categoria dei nomina collectiva, ossia quei nomi che, pur nella forma singolare, esprimono un senso collettivo, genealogico o astratto, senza necessità grammaticale di pluralizzazione. A differenza di מַיִם (mayim, «acque»), che è un plurale morfologico, e similmente a רֶ֫כֶב (rekhev, «carri»), זֶרַע opera semanticamente come un collettivo singolare. Tale forma flessibile consente al termine di designare sia una pluralità di discendenti sia un individuo paradigmatico, a seconda del contesto.
Nel testo di Genesi 15:18, la promessa divina è rivolta «alla tua discendenza», resa dall’espressione לְזַרְעֲךָ (lezarʿekhā), una costruzione preposizionale composta dalla particella לְ (le, «a, per») e dal sostantivo זֶרַע (zéraʿ, «seme») con suffisso pronominale –ךָ (–ekhā, «tua»). Non si tratta, quindi, di un costrutto nominale (semikhùt), ma di un vero dativo funzionale, in cui la preposizione לְ introduce il destinatario dell’azione verbale נָתַתִּי (nātattī, «ho dato»). Le grammatiche classiche — da Gesenius a Waltke–O’Connor — riconoscono in לְ una funzione dativale paragonabile al dativus commodi o finalis, tipica nei contesti di promessa o alleanza.
Questo impianto sintattico-teologico smentisce in radice ogni interpretazione che voglia ridurre zéraʿ a una categoria etnico-nazionale. Il destinatario della promessa non è Israele secondo la carne, ma il portatore escatologico della benedizione, come afferma esplicitamente Paolo nella lettera ai Galati:
«La Scrittura non dice: “E alle discendenze” come se si trattasse di molte, ma come di una sola: “E alla tua discendenza”, cioè Cristo» (Ga 3;16).
L’apostolo non forza il testo: ne coglie la polisemia controllata e la inscrive nell’economia del compimento messianico. In Cristo, lo זֶרַע (zéraʿ, «seme») abramitico si rivela come titolo messianico, e la promessa della terra assume un valore escatologico-redentivo e universale, non etnico né localizzato.
Scofield, nella sua nota a Genesi 15:18, ignora deliberatamente questa complessità grammaticale e teologica. Egli attribuisce al termine zéraʿ un significato univocamente etnico-geopolitico, in aperto contrasto con l’uso biblico e con le versioni antiche come la Settanta, che traduce sistematicamente con σπέρμα (spérma), anch’esso singolare e semanticamente aperto. Una tale interpretazione non può essere scusata con l’ignoranza: se Scofield non conosceva l’ebraico, non era autorizzato a commentarlo; se invece lo conosceva, eppure ne ha forzato il senso, allora la sua è una manipolazione consapevole e, in quanto tale, una frode teologica.
Il danno arrecato non è soltanto linguistico: è cristologico. Spostando l’asse della promessa da Cristo al popolo etnico d’Israele, Scofield disloca la rivelazione dalla sua traiettoria redentiva, tradendo l’analogia fidei e sovrapponendo alla Scrittura un’ideologia politica angloamericana e sionista che nulla ha a che vedere con il piano eterno di Dio. Egli non legge il testo, ma lo forza; non espone la Parola, ma la impiega come strumento per sostenere una teologia del possesso che riecheggia più l’ideologia coloniale che il Vangelo della croce. In tal senso, la sua Bibbia non è un commentario, ma un manifesto: non un’opera esegetica, ma un’arma dottrinale — una pistola teologica puntata sul cuore della promessa del Messia. Ed è proprio in questo che la sua colpa è somma: nel sopprimere il Figlio per far posto alla carne; nel sostituire la semenza che è Cristo con una stirpe etnica idolatrata; nel deviare lo sguardo del lettore dalle glorie spirituali del Regno di Dio alla cartografia di un’alleanza travisata. Un tale tradimento non può essere derubricato a svista: è una scelta deliberata, una perversione sistematica del senso delle Scritture.
Conclusione: La promessa e la menzogna
L’analisi condotta ha dimostrato, con rigore filologico e coerenza teologica, che l’interpretazione dispensazionalista di Genesi 15:18 costituisce una falsificazione ideologica del messaggio biblico. Essa rovescia il senso dell’alleanza divina, riducendo a mappa geopolitica ciò che la Scrittura rivela essere una promessa profetico-escatologica, radicata nella figura del Messia e orientata al compimento ultimo nella nuova creazione.
In Genesi 15:18, la promessa divina è rivolta «alla tua discendenza» (לְזַרְעֲךָ /lezarʿekhā), un sintagma preposizionale che indica il destinatario del giuramento divino. Ridurlo, come fa Scofield, a una designazione etnica o geopolitica è un’operazione filologicamente errata e teologicamente fuorviante, che tradisce il senso profondo dell’alleanza.
Giosuè 21:43–45 attesta l’iniziale adempimento della promessa territoriale, ma il Nuovo Testamento ne rivela la dimensione escatologica ulteriore. La lettera agli Ebrei afferma infatti:
Perché, se Giosuè avesse dato loro riposo, Dio non avrebbe in seguito parlato di un altro giorno (Eb 4:8).
In questo modo la rivelazione del Nuovo Testamento spiega che la «terra promessa» prefigura il riposo definitivo (κατάπαυσις /katápausis), e assume i connotati di una realtà trascendente che trova il suo telos nella dimora celeste. In Romani 4:13 tale orizzonte viene ulteriormente ampliato: Abramo non è erede di una terra delimitata da confini, ma «del mondo» (kósmos), preannunciando la restaurazione universale della creazione.
Infatti la promessa di essere erede del mondo non fu fatta ad Abraamo o alla sua discendenza in base alla legge, ma in base alla giustizia che viene dalla fede (Ro 4:13).
Va evidenziato come la topografia biblica segua una traiettoria escatologica che parte dall’Eden, attraversa Canaan e culmina nella Nuova Gerusalemme. La terra promessa è dunque una categoria cultuale-escatologica, non geopolitica: essa rappresenta lo spazio teologico in cui Dio abita col suo popolo. La terra è simbolo del tempio escatologico e dell’intero cosmo trasfigurato.
Infatti, il Nuovo Testamento non rinnova mai la promessa di Genesi 15:18 in termini territoriali. Al contrario, con la venuta di Cristo, esso rilegge le promesse patriarcali in chiave spirituale e cristocentrica. Ebrei 11:13-16 afferma che Abramo e i patriarchi «aspettavano una patria migliore, cioè una patria celeste», e la lettera ai Galati identifica il «seme» come Cristo e i credenti (Ga 3:29), senza alcuna distinzione etnica. Il concetto stesso di «terra promessa» trova compimento non nella geopolitica, ma nella «nuova creazione» (2P 3:13; Ap 21:1).
Non è temerario, bensì teologicamente necessario, affermare che il dispensazionalismo evangelico si configuri come una costruzione fondamentalmente anticristiana, generata da quello «spirito dell’anticristo che è già nel mondo» (1Gv 4:3). Tale sistema nega il compimento delle promesse in Cristo, spezza l’unità della Scrittura, frammenta l’identità del popolo di Dio, reifica l’ombra a scapito della realtà (cf. Eb 10:1), e disloca la speranza escatologica dalla Gerusalemme celeste a quella terrena. Non sorprende che a intere generazioni evangeliche sia stato insegnato tutto sulla Gerusalemme terrena — persino definita impropriamente «la città santa» — mentre nulla o quasi è stato trasmesso della «Gerusalemme di sopra», che è realtà presente e partecipata fin d’ora da chi è nato dallo Spirito (Ga 4:25, 26; Eb 12:22) quella a cui guardavano i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe (Eb 11:8-10). Il dispensazionalismo, così facendo, destituisce il Figlio di Dio dal centro della storia per sostituirlo con una nazione secondo la carne, attribuendo a Israele etnico il ruolo di «orologio di Dio»: un’affermazione antibiblica che idolatra la genealogia etnica, disloca la fede nel sangue di Cristo e falsifica il Vangelo stesso.
Proclamare che Israele etnico sia l’«orologio di Dio» equivale a profanare la croce, annullare il plērōma tōn kairōn (Ef 1:10), e rifiutare la centralità escatologica del Cristo glorificato. È un atto che infrange l’unità del piano redentivo, nega che in Lui ogni distinzione etnica sia stata abolita, e oppone alla Chiesa — l’Israele di Dio (Ga 6:16) — un Israele carnale elevato illegittimamente a fulcro del tempo divino (cf. 1Te 2:15). Israele è stato scelto affinché la Legge giungesse a noi come pedagogo per condurci a Cristo (Ga 4:24-28), ma gli ebrei non sono eletti. Tuttavia, gli ebrei che si ravvedono e si convertono al Messia, Gesù, sono degli eletti, non perché sono ebrei ma perché hanno creduto nel Messia (Atti 2:36-40; 3:13-26; Ro 2:28, 29; Ef 1:3, 4; Gv 8:39-47).
La dottrina dispensazionalista è una vera e propria fortezza demoniaca (cf. 2Co 10:3-5) la cui forza non risiede nella verità rivelata, ma nella propaganda ideologica e nei finanziamenti provenienti da circuiti sionisti: essa non è orientata alla salvezza dell’uomo, bensì alla legittimazione di un ordine politico-religioso che manipola la fede per scopi geopolitici. Non è dunque casuale che proprio questo impianto pseudo-teologico sia divenuto l’infrastruttura spirituale di molte delle più gravi derive belliche del XX e XXI secolo: un’eresia mascherata da escatologia, che serve i padroni della terra, non il Signore del cielo.
Genesi 15:18, letta alla luce dell’intero messaggio biblico, non è un atto notarile fondiario, ma un giuramento profetico che trova il suo telos nella persona e nell’opera del Messia, in cui tutte le promesse di Dio sono «Sì e Amen» (2 Co 1:20). Laddove l’uomo naturale discerne confini, guerre, sangue, conquista e diritto; l’uomo spirituale contempla un Regno che non è di questo mondo (Gv 18:36), una città che ha le vere fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso (Eb 11:10).
La vera discendenza di Abramo, pertanto, non è secondo la carne ma secondo lo Spirito; non è costituita da un’etnia, ma dalla Chiesa (già a partire da Abele con la promessa di Genesi 3:15.), composta da ogni popolo, tribù, lingua e nazione (Ap 7:9–10). E la vera terra promessa non è una regione del Medio Oriente, ma la nuova creazione, il sabato escatologico di Dio, inaugurato nella resurrezione di Cristo e atteso con ardente desiderio dall’intera creazione (Ro 8:19–23).
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Tutto molto interessante, grazie per il lavoro che fate.
Ciao Lucio. Grazie dell’incoraggiamento. Con l’occasione siamo noi a dover ringraziare anche voi di byoblu per il vostro lavoro. Dio vi benedica.