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Pamela, uccisa dall’uomo che avrebbe dovuto proteggerla | Quando lo scudo si spezza e la forza si fa minaccia, l’umanità vacilla

L’eco delle urla di Pamela Genini, squarciando la notte milanese come un lamento antico e sacro, ha trafitto il mio animo con la violenza improvvisa di un tuono che irrompe nel silenzio. Non riesco a liberarmi da quelle urla: rimbombano dentro di me come un’onda che non si ritira. Non riesco a distogliere il pensiero da quei trenta minuti eterni, divorati dalla disperazione, in cui una giovane donna di ventinove anni — quasi l’età di mia figlia — è stata annientata da un uomo che avrebbe potuto esserle padre, poco più giovane di me.

In quell’età, una ragazza può ancora sperare di trovare in un uomo più maturo, un porto sicuro, una figura protettiva. Forse anche Pamela, nel suo giovane cuore, aveva intravisto in quell’uomo di ventiquattro anni più grande un rifugio, l’ombra di una forza capace di custodirla. Forse cercava inconsciamente ciò che la vita le aveva negato troppo presto: l’abbraccio protettivo di un padre ridotto da diciassette anni a un silenzio immobile, in stato vegetativo, dopo la caduta da un ponteggio. Ma al posto del rifugio ha trovato un labirinto; al posto di una spalla, un predatore. Quell’uomo non è stato argine ma abisso, non protezione ma minaccia: un narcisista patologico travestito da porto sicuro, che ha spento la vita che avrebbe dovuto custodire.

Nelle relazioni tossiche si innesca spesso un circolo neuropsichico sottile e perverso. La vittima, inizialmente attratta da un’immagine di forza e protezione, viene lentamente avvolta in una trama invisibile di dipendenza emotiva, dove seduzione e controllo si intrecciano come fili sottili e invisibili. La personalità narcisistica — seducente, ipercontrollante, abilmente manipolatoria — alterna promesse e minacce, carezze e ferite, costruendo un legame traumatico (trauma bond) che agisce sui circuiti profondi della paura e dell’attaccamento.

In questo stato di dissonanza cognitiva, l’amore si confonde con la minaccia, la protezione con la prigionia. La vittima resta legata non alla realtà, ma all’illusione primigenia di salvezza che il carnefice aveva evocato per sedurla. È così che l’anima viene prima cullata e poi schiacciata: da ciò che appariva rifugio nasce l’abisso.

Ma Pamela — come tante donne imprigionate in relazioni di dominio — ad un certo punto apre gli occhi. Aveva riconosciuto la natura predatoria di quell’uomo, ne aveva percepito la violenza latente, pronta a deflagrare. L’aveva subita sul proprio corpo e la propria mente. Aveva visto la forza cieca e distruttiva che covava sotto la superficie seducente. Ma la paura è una catena più sottile dell’acciaio: temeva non soltanto per sé, ma per la sua famiglia. Sapeva che denunciare significava sfidare un potere violento e imprevedibile, e quella minaccia si allungava come un’ombra su coloro che amava. Non è la debolezza che immobilizza, ma il terrore di scatenare un male ancora più grande.

Ecco perché questa non è soltanto la cronaca di un delitto: è la lacerazione di un ordine morale, è un terremoto silenzioso che scuote le fondamenta della nostra coscienza collettiva. Quando un uomo abdica alla propria vocazione originaria — essere custode e non carnefice — il mondo intero vacilla.

Non è soltanto la lama a ferire. È l’abisso che si spalanca quando la forza, svuotata del suo significato, si tramuta in dominio; quando l’anima maschile, privata della sua forma, si corrompe in predazione. Non è “uomo” chi alza la mano contro una donna. Il vero uomo non tocca una donna se non per sostenerla, come colui che regge una lampada fragile nel vento: con forza salda e dolcezza infinita.

Viviamo in un tempo che, incapace di guardare dentro i cuori, si rifugia dietro parole nuove e ideologiche: «patriarcato», «femminicidio», «mascolinità tossica». Questi slogan, privi di radici e carne, diventano gusci retorici: descrivono senza guarire, etichettano senza redimere. Il male non nasce da una categoria sociologica, ma da un abisso spirituale, da un cuore corrotto, da una mente smarrita che non sa più contenere la propria ombra.

Ecco perché, pur comprendendo il dolore che spinge a invocare nuove norme, guardo con lucidità critica al tentativo di introdurre un reato autonomo di «femminicidio» — come previsto dal nuovo art. 577-bis. La legge, per quanto necessaria a reprimere, non può creare nobiltà d’animo né redimere un uomo precipitato nel baratro della sua bestialità. La giustizia non scaturisce da lessici ideologici, ma da coscienze educate e forgiate. Etichettare non è educare. La legge può punire; solo la formazione può trasformare.

L’antichità questo lo sapeva. Nei testi biblici come nella grande tradizione classica, la forza maschile autentica non era dominio ma servizio. In ebraico biblico, gibbōr (גִּבּוֹר) non è sinonimo di ’ādām (essere umano) né di ’îš (uomo di genere maschile): è un titolo, un epiteto riservato al «valoroso», al «difensore», all’«eroe». Gibbōr è colui che si erge contro il caos, che difende, che custodisce. È un’identità conquistata, non una condizione biologica. È la forza trasfigurata in sacrificio. Questo titolo culmina nel Nome profetico di Isaia 9,5 (ebr. 9,6): «’El Gibbōr» (אֵל גִּבּוֹר), «Dio potente». È Cristo stesso, lo Sposo che non domina la sua Sposa ma la protegge, che non l’ama a parole per poi spegnerla, ma l’ama fino al sangue, fino alla croce, fino a morire per la sua redenzione.

Questa visione attraversa i secoli. Omero canta di Achille, che combatte non per opprimere ma per amore ferito, ed Ettore, il più nobile dei guerrieri, che cade per difendere la sua città e la sua sposa. Nella Iliade il vero eroe non è chi calpesta, ma chi protegge. Aristotele, nell’Etica Nicomachea, insegna che la virtù è dominio di sé prima che degli altri (enkráteia); e Seneca, nelle Lettere a Lucilio, ammonisce: «Maxima est victoria sui ipsius» — la vittoria più grande è su se stessi. Platone, nel Simposio, intuisce che l’amore tende all’unità degli opposti; Agostino, nelle Confessioni, mostra che l’ordine dell’amore redime il disordine della volontà. La tradizione classica e quella biblica convergono: la forza virile è nobile soltanto quando è temperata dalla virtù.

Oggi, però, questa grammatica sembra essersi dissolta. L’uguaglianza si è confusa con l’uniformità, la virilità è guardata con sospetto, la femminilità svilita. Così, nel nome di una falsa parità, l’uomo e la donna smarriscono sé stessi. La danza originaria fra forza e grazia, sacrificio e accoglienza, viene spezzata. Ma la complementarità non è oppressione: è sinfonia. E quando si cancella la differenza, si uccide la poesia dell’amore.

Un bambino che cresce senza un modello virile — virile nel senso latino più alto, da vir, colui che congiunge forza e virtù, ardimento e misura, potenza e sacrificio — da adulto non sarà un custode, ma un uomo smarrito. Sarà come una colonna privata del suo capitello: potrà restare in piedi, ma non reggerà nulla. In lui la vis non si farà virtus, ma si corroderà in brama; la forza non si eleverà a servizio, ma si piegherà a possesso. Laddove nessuno gli mostra che essere uomo significa ergersi come bastione e non come tiranno, egli imparerà a confondere l’autorità con il dominio, la potenza con la brutalità. Ciò che avrebbe potuto diventare scudo diventerà lama; ciò che avrebbe dovuto essere custodia diverrà minaccia.

Forte non è l’uomo violento: la violenza è soltanto la caricatura disperata della forza autentica. Forte è l’uomo che domina se stesso, che usa la propria energia non per ferire ma per proteggere la donna che ama da chi vuole farle del male; che si espone per difendere, non per colpire. Senza la luce di un pater exemplaris, la sua anima si aggirerà come una legione senza vessillo: forte nel corpo, ma vuota nello spirito; abile a conquistare, ma incapace di custodire.

Ecco perché occorre riconquistare il ruolo della famiglia nel suo significato più alto e originario, quello che i nuovi stereotipi culturali tentano di demolire: luogo in cui la forza diventa esempio, la differenza diventa armonia e l’amore plasma uomini veri e donne libere.

La prima trincea non è nel tribunale: è nella culla. È nella madre che insegna al figlio il rispetto, nel padre che mostra — con la vita, non con le parole — che la forza autentica non possiede, ma protegge. È nella famiglia viva e non ideologizzata che si forgiano i futuri gibbōrīm: uomini-guardiani capaci di sacrificarsi invece che ferire, di proteggere invece che dominare. Quando una società abdica a questo compito educativo e delega alla legge ciò che solo la formazione del cuore può compiere, genera predatori o anime vuote.

Il «femminicidio» non si sconfigge con norme sempre più affilate, ma con una rieducazione morale e spirituale radicale. Non serve una nuova parola per nominare l’orrore: servono madri e padri che formino uomini che non diventino mostri. Serve una cultura che restituisca alla virilità il suo carattere sacrale e alla femminilità la sua dignità inviolabile. Serve una società che comprenda che la differenza tra uomo e donna non è ostacolo ma principio di armonia, come insegnavano i classici e attesta il Vangelo: «Uomini, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Efesini 5:25). Non è l’uomo che uccide la donna: è l’uomo che dà se stesso per salvarla.

La bella e giovane Pamela non deve diventare un’icona ideologica o uno slogan mediatico. La sua voce — per me, padre, uomo, testimone ferito — è un grido profetico, inciso nella carne della nostra epoca. O l’uomo torna a essere gibbōr — custode, difensore, guerriero della luce — oppure continueremo a piangere sulle rovine di un’umanità senza radici.

Dio non ha creato l’uomo per colpire, ma per amare. Cristo, il Gibbōr eccelso, non domina la sua Sposa ma la protegge; non la ferisce ma la salva; non la possiede ma si dona. Ogni colpo inferto a una donna è un colpo inferto al volto stesso dell’umanità.

In tutta franchezza, non credo che servano nuove leggi: servono tribunali giusti e severi che applichino quelle leggi che già esistono, e cuori capaci di discernere il bene dal male. Non bastano codici più affilati: servono anime forgiate nella differenza, nel sacrificio e nella verità. Solo uomini veri — gibbōrīm — e donne che sappiano educare generosamente potranno restituire alla società ciò che nessuna norma da sola potrà mai produrre: la dignità dell’amore e la sacralità della vita. (by Filippo)

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