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«Autopen Presidency»: anatomia di una regia parallela

© Filippo Chinnici

Negli Stati Uniti è stato reso pubblico il rapporto ufficiale del House Oversight Committee intitolato The Biden Autopen Presidency: Decline, Delusion, and Deception in the White House (28 ottobre 2025). Il documento, pubblicato al termine di mesi di audizioni e analisi interne, è destinato a suscitare un’eco internazionale per la gravità delle sue conclusioni e per la natura senza precedenti delle accuse.

Il dossier — novantuno pagine fitte di testimonianze, e-mail e materiali congressuali — delinea un quadro che trascende la mera irregolarità amministrativa. Vi si descrive una catena di comando flessibile, un Presidente progressivamente isolato dal proprio “cerchio interno” e una firma meccanica (autopen) impiegata per atti di massima sensibilità, inclusi ordini esecutivi e provvedimenti di grazia. La relazione parla apertamente di «abuso sistematico e copertura consapevole», suggerendo l’esistenza di un modello decisionale parallelo: un governo operativo oltre la soglia della consapevolezza del suo titolare. (comunicato del comitato)

Secondo il rapporto, con l’aggravarsi della fragilità del capo dell’esecutivo, lo staff avrebbe progressivamente abusato dell’autopen all’interno di procedure prive di tracciabilità certa della volontà presidenziale. Tale prassi, ripetuta e non documentata, avrebbe finito col configurare una regia amministrativa autonoma, in cui la firma sostituiva la deliberazione.

Testate autorevoli come il Wall Street Journal e il Washington Post hanno confermato l’esistenza e la portata del documento. Per il WSJ, la questione non riguarda tanto lo strumento meccanico quanto la dimostrabilità della volontà presidenziale; per il Washington Post, la posta in gioco è eminentemente politica, poiché l’inchiesta ridefinisce il tema stesso della legittimità istituzionale e della responsabilità esecutiva.

Dopo un’analisi integrale del dossier e un confronto sistematico con le principali fonti congressuali e giornalistiche, prende forma questo articolo, che si propone di ricostruire i fatti, verificarne la coerenza documentale e indagarne le implicazioni istituzionali e metapolitiche.

Perché, dietro le firme automatiche, potrebbe celarsi non solo un’anomalia procedurale, ma la rivelazione più inquietante della politica americana contemporanea: una presidenza che funziona anche senza un Presidente.

cliccando sull'immagine è possibile scaricarsi il documento intero in pdf

1. La catena di comando “morbida”

Uno dei passaggi più scabrosi reca la data del 19 gennaio 2025: la validazione di un pacchetto di clemenze presidenziali sarebbe transitata per un messaggio inviato dall’account del capo di gabinetto Jeff Zients, con la formula:

«I approve the use of the autopen for the execution of all the following pardons. Thanks, JZ» — trad.:
«Approvo l’uso dell’autopen per l’esecuzione di tutti i seguenti provvedimenti di grazia (atti di clemenza). Grazie, J.Z.»

Il testo compare nel rapporto congressuale e nei verbali allegati. La ricostruzione è corroborata da fonti indipendenti: Axios documenta la tempistica e la dinamica dell’inoltro — nella tarda serata del 19 gennaio, meno di quattordici ore prima della scadenza del mandato — precisando che l’e-mail fu materialmente inviata dalla collaboratrice Rosa Po dall’account di Zients; il giornalista Alex Thompson ne ha pubblicato lo screenshot, confermando la formula testuale «Thanks, JZ».

La catena decisionale appare difettosa: la riunione finale sulle grazie non includeva Zients; l’esito sarebbe stato riferito a Rosa Po, che avrebbe contattato Zients, e Po, agendo in sua vece, avrebbe trasmesso l’autorizzazione all’uso dell’autopen allo Staff Secretary’s Office. Nessun documento attesta la deliberazione personale e contemporanea del Presidente per ciascun atto clemenziale. È questo il cuore della tesi: la mancata tracciabilità della volontà presidenziale.

A contestualizzare la vicenda, il 17 gennaio 2025 la Casa Bianca aveva annunciato 2.500 commutazioni di pena per reati “non violenti di droga”: cifra record, preludio a una fase clemenziale massiva e accelerata.[APnews]

2. Il medico che tace


Ampio spazio del dossier è dedicato a Kevin O’Connor, medico personale di Joe Biden e successivamente della Casa Bianca, figura cruciale nel mantenere il riserbo sulle condizioni fisiche e cognitive del Presidente. Il rapporto lo accusa di aver eluso ogni valutazione cognitiva ufficiale, nonostante le pressioni interne e le evidenze di un progressivo declino.

Durante la deposizione dinanzi alla Commissione, O’Connor ha invocato il Quinto Emendamento — anche quando gli fu chiesto se qualcuno gli avesse mai domandato di falsificare o alterare le informazioni mediche sul capo dello Stato. La scena, interamente registrata e resa pubblica, è divenuta l’emblema di un silenzio istituzionale che il rapporto interpreta non come mera prudenza professionale, ma come atto politico di copertura.

Il Comitato di Supervisione ha successivamente chiesto al District of Columbia Board of Medicine di avviare un’inchiesta formale sulla condotta del dottor O’Connor. Così, il medico che avrebbe dovuto garantire trasparenza sanitaria diventa — paradossalmente — il simbolo di una presidenza clinicamente protetta, politicamente schermata e moralmente muta.

3. L’“effetto Hollywood” e la gestione percettiva

Tra le pieghe del dossier affiora un capitolo sorprendente: la consulenza diretta di Steven Spielberg e Jeffrey Katzenberg nella preparazione del discorso sullo Stato dell’Unione 2024 e di altri eventi pubblici. Le indicazioni fornite ai collaboratori presidenziali — sul tono, sul ritmo della voce, sulle inquadrature, sulla gestualità e persino sull’eventualità di apparire senza cravatta — rivelano un’attenzione quasi ossessiva alla costruzione dell’immagine, al frame percettivo più che al contenuto.

L’operazione, definita nel rapporto con l’espressione “stage-managed presidency”, disegna una presidenza trattata come uno spettacolo diretto e montato da professionisti dell’intrattenimento. Lettura e regia, più che deliberazione e guida, sembrano divenire i pilastri dell’azione politica.

Nel contesto delle altre anomalie documentate, questo “effetto Hollywood” assume un valore paradigmatico: la comunicazione supplisce alla sostanza, la scenografia rimpiazza la decisione, e la percezione pubblica diventa l’ultimo presidio di un’autorità che non parla più con voce propria. Quando la volontà si affievolisce, resta soltanto il copione.

4. Incentivi e cecità selettiva

Dietro la facciata istituzionale, il dossier illumina la trama economica che sostiene la fedeltà politica. Tra i nomi citati, spicca quello di Michael Donilon, consigliere storico di Biden, che ha dichiarato di aver percepito quattro milioni di dollari per la campagna elettorale del 2024, con un bonus di pari importo subordinato a una possibile rielezione del Presidente.

Non è la cifra a destare scandalo, ma il principio che la regge: in un apparato dove la convenienza personale diventa la misura della lealtà, la verità cessa di essere un dovere e diventa un rischio. Il potere, per conservarsi, finisce per premiare il silenzio più della trasparenza.

Il Washington Post ha confermato l’entità e la struttura dell’accordo, inquadrandolo nel meccanismo di una Casa Bianca che retribuisce la fedeltà narrativa più della responsabilità etica.

5. Il nodo giuridico: la firma automatica e la volontà presidenziale

Nel diritto federale statunitense, l’uso dell’autopen non costituisce di per sé un atto illegittimo: lo diventa, tuttavia, nel momento in cui manca la prova tangibile e contemporanea della volontà presidenziale. L’Office of Legal Counsel, nel parere del 2011, ammise la validità della firma meccanica per gli atti puramente ministeriali, come la promulgazione di leggi, a condizione che vi fosse un’autorizzazione personale e immediata del Presidente. Ma tale principio — sottolinea il rapporto della House Oversight Committee — non può estendersi ai provvedimenti di clemenza, che appartengono alla sfera più intima e discrezionale del potere esecutivo.

Tale principio, tuttavia, non può estendersi ai provvedimenti di clemenza, che appartengono alla sfera più intima e discrezionale del potere esecutivo. [US Department of Justice]

La giurisprudenza storica, da Ex parte Garland (1866) a Schick v. Reed (1974), ribadisce che il potere di grazia è un atto personalissimo — un gesto di sovranità morale che non ammette delega né surroga. Come osserva il giurista Philip Hamburger in The Personal Pardon Power (Law & Liberty, 2025), i tribunali possono dichiarare nulle le grazie decise «da altri», poiché l’atto di clemenza presuppone un contatto diretto tra volontà e firma, tra coscienza e responsabilità.

Un memo etico interno del Dipartimento di Giustizia, attribuito a Bradley Weinsheimer, definì inoltre «falsa o fuorviante» la classificazione di alcune condanne come non violente, segnalando l’assenza di un vaglio sostanziale da parte del Presidente e dei suoi consiglieri. Non si tratta di una censura formale di legittimità, ma della spia di una procedura disarticolata, dove la catena di comando si allenta fino a dissolvere la responsabilità individuale.[Fox News]

Il punto decisivo resta dunque la mens presidenziale: se la volontà non è espressa, ma soltanto presunta, la firma — anche perfettamente replicata — cessa di avere valore costituzionale. In gioco non è un dettaglio tecnico, ma il fondamento stesso dell’autorità esecutiva: la certezza che il potere sia esercitato da chi ne porta il nome e la responsabilità.

A un livello più profondo, la vicenda dell’autopen rivela una dinamica di potere che va oltre la contingenza di un singolo abuso procedurale. Non si tratta soltanto di un problema di tracciabilità amministrativa, ma dell’emergere di un modello istituzionale in cui la decisione si separa progressivamente dal decisore. La firma meccanica non è, in questo senso, un semplice automatismo tecnico, bensì la manifestazione simbolica di una transizione: quella da una sovranità personale a una sovranità funzionale, dove la macchina di governo tende a perpetuarsi indipendentemente dalla volontà del suo vertice. È nel momento in cui la volontà decade che l’apparato assume la propria autonomia: la finzione amministrativa supplisce al declino, e la simulazione della firma diventa lo strumento della transizione.

L’atto politico diviene così un protocollo, la responsabilità si diluisce nella catena delle procedure, e l’apparato, anziché servire la volontà, finisce per sostituirla. È il rovesciamento del principio di responsabilità: l’esecutore del protocollo acquista più potere di chi dovrebbe esercitarlo, e l’obbedienza si trasforma in sovranità. In questa prospettiva, l’“autopen presidency” potrebbe non rappresentare un incidente della storia, ma il paradigma nascente di una governance impersonale, in cui l’efficienza del meccanismo prevale sull’identità del soggetto che lo muove.

Ciò che oggi si manifesta come sostituzione meccanica della volontà potrebbe domani divenire la sua completa automazione: la decisione algoritmica al posto della deliberazione umana. È questo il passaggio più rivelatore — la soglia in cui il potere si disincarna, sopravvive al declino del suo titolare e assume la forma di un organismo autonomo, regolato da impulsi tecnici più che da scelte morali.

Sul piano internazionale, la percezione di tale crisi si è riverberata oltre i confini americani. RT (Russia), in un articolo pubblicato ieri 28 ottobre 2025, ha titolato «House Republicans deem Biden pardons “illegitimate”», interpretando l’inchiesta come la conferma di una presidenza amministrata da uno staff sostitutivo e ormai priva di autentica volontà politica.

Conclusione

Posti in sequenza — atti sensibili firmati meccanicamente, tracciabilità intermittente, silenzio medico, regia hollywoodiana, incentivi economici interni — questi elementi non delineano un’anomalia burocratica, ma un modello di governo delegato, nel quale la macchina amministrativa finisce per sostituirsi alla volontà politica.

De iure, spetterà al Dipartimento di Giustizia stabilire se «Biden non governava davvero»; de facto, il dossier consegna l’immagine di una presidenza filtrata attraverso un apparato di sostituzione, dove la decisione si dissolve nella catena dei mediatori e la firma diventa l’ultimo simulacro della volontà.

Ciò che il rapporto lascia intravedere non è una disfunzione episodica, ma l’esistenza di una catena di comando flessibile, capace di operare anche nell’assenza del vertice: una governance che, smarrita la persona, conserva solo il processo. La firma, ridotta a gesto meccanico, non è più testimonianza di una coscienza ma il travestimento della sua assenza — la maschera attraverso cui il potere impersonale conserva le proprie sembianze umane.

Molti osservatori, leggendo tra le righe del rapporto, spingono l’analisi oltre: la presidenza Biden — sostengono — non sarebbe stata un’eccezione, bensì il prototipo di un potere post-umano, in cui la sovranità è amministrata da reti collettive, algoritmi decisionali e staff interconnessi che operano in luogo del vertice. La firma automatica diventa allora il segno di una mutazione sistemica: la trasfigurazione della leadership democratica in governance tecnocratica, dove la volontà personale è sostituita dalla procedura, e la responsabilità si dissolve nel protocollo.

Così, in un paradosso degno della storia americana, la penna del Presidente è divenuta la prova della sua assenza. E nel tratto impersonale dell’autopen — freddo, perfetto, replicabile — si riflette l’immagine di un potere che continua a funzionare anche quando chi ne porta il nome non governa più davvero.

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