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Alaska 2025 – Trump, Putin e il vertice dell’ombra

© Filippo Chinnici

Il 15 agosto 2025, ad Anchorage, Alaska, si è consumato uno degli eventi più simbolici e insieme più enigmatici della scena internazionale: il faccia a faccia tra Donald J. Trump e Vladimir Putin sotto l’insegna rassicurante del motto Pursuing Peace, «Perseguire la Pace». Due leader sorridenti, due bandiere, due sedie vuote alle loro spalle e una scenografia perfetta da manuale di comunicazione politica. Ma dietro l’apparente linearità dell’incontro, si celano strati multipli di significato che toccano non solo la geopolitica, ma le logiche del potere invisibile.

In questa traiettoria, si può ipotizzare che al centro del colloquio non vi fosse soltanto la questione ucraina, ma il quadro più ampio delle relazioni bilaterali USA-Russia, con l’Artico come scacchiera emergente e la Cina sullo sfondo quale variabile strategica che Washington mira almeno a disallineare.

Un vertice senza accordi, ma non senza messaggi

La cronaca è chiara: nessun cessate il fuoco immediato, nessuna intesa vincolante sul futuro dell’Ucraina. Trump ha parlato di «progresso» e ribadito che «non c’è un accordo finché non c’è un accordo» sottolineando che contatterà Zelenskyj che intanto ha annunciato che lunedì volerà a Washington, mentre Putin ha riproposto le sue condizioni massimaliste: blocco all’espansione NATO, neutralità di Kiev, garanzie permanenti per la sicurezza russa.

Questa formula rinvia a una trattativa in più atti: si chiarisce il quadro politico-strategico tra Washington e Mosca, si fa maturare un «punto di equilibrio» fuori scena e soltanto dopo si tenta di codificarlo in misure operative (tregua, garanzie, regime di frontiera). È un metodo che privilegia l’intesa di vertice prima dell’ingegneria del dossier ucraino, sul quale l’attenzione mediatica internazionale continua a concentrarsi in maniera esclusiva.

Le grandi testate occidentali – Reuters, The Guardian, Associated Press – hanno sottolineato l’assenza di contenuti concreti. Al contrario, i media russi (TASS) hanno celebrato l’incontro come «costruttivo» e come un reset che pone fine all’isolamento di Mosca, mentre la stampa cinese (Xinhua e Global Times) ha parlato di atmosfera «produttiva» e di «uguaglianza», leggendo nel summit un segnale di parità ritrovata tra Washington e Mosca. La vera posta in gioco, dunque, non era la firma di un trattato, ma la costruzione di un’immagine: Putin legittimato come pari a Trump; Trump riconosciuto come interlocutore necessario al Cremlino. Quindi, prima la parità simbolica tra superpotenze, poi l’eventuale traduzione negoziale. Il summit, in questo senso, funziona da atto costitutivo di legittimità internazionale.

Il summit è stato un’operazione di status management più che di diplomazia tradizionale. Una scenografia che lascia intendere che la pace non è imminente, ma che nel contempo ridisegna i contorni dell’architettura globale del potere. Non bisogna confondere la retorica della «pace imminente» con l’ipotesi di una tregua lunga: soluzione provvisoria, revocabile, ma sufficiente a sancire un nuovo equilibrio di forze e a misurare la tenuta degli impegni sul terreno.

Europa marginalizzata: spettatrice o vittima designata?


L’Europa, come sempre, arriva in ritardo, divisa e incerta sul da farsi. Bruxelles, incapace di presentarsi come attore unitario, si trova relegata a comparsa, ostaggio di un conflitto che la dissangua sul piano economico e diplomatico. L’attuale marginalità europea non è un accidente passeggero, ma il riflesso di una traiettoria di lungo periodo inscritta nella stessa architettura istituzionale e monetaria dell’Unione.

Da qui discende la verità nuda: l’asse decisionale è bilaterale, USA-Russia, mentre l’UE — esclusa dal tavolo — si limita a inseguire. Washington non guarda solo all’Ucraina, ma punta a scalfire l’addensamento Mosca-Pechino, evitando che la guerra consolidi un blocco compatto anti-occidentale.

Il Medio Oriente osserva con distaccata prudenza. Arab News ha parlato di un incontro chiuso senza accordi concreti, pur lasciando intravedere «prossimi passi» negoziali. Altri media regionali hanno sottolineato l’approccio cauto, mentre Al Jazeera,
ha liquidato il summit con la formula «warm in symbols, cold in substance» — caldo nei simboli, freddo nella sostanza. Israele, invece, lo ha letto come vittoria d’immagine per Putin, che ha guadagnato visibilità e legittimità internazionale, pur senza risultati concreti sul terreno (Times of Israel). Anche agli occhi dei partner mediorientali, dunque, l’Europa rimane un elemento marginale, spesso ancillare.

La prova definitiva è arrivata subito dopo il vertice: a poche ore dall’incontro in Alaska, i ventisette ambasciatori dell’UE sono stati convocati d’urgenza a Bruxelles in un “formato ristretto”, senza assistenti né telefoni, per discutere i prossimi passi sulla crisi ucraina. Secondo quanto riportato da Politico e Reuters, i leader europei hanno trascorso la notte nell’attesa di una telefonata di Trump: immagine eloquente di un continente costretto a restare in ascolto, mentre le decisioni venivano già codificate altrove.

La scelta di un formato “limitato” segnala molto più di un dettaglio protocollare: è sintomo di una crisi di fiducia interna e di una percezione d’urgenza. L’assemblea rapida degli ambasciatori riflette tre elementi chiave. Primo, l’allarme per una potenziale esclusione dell’UE — e persino di Kiev — dalle prime mosse post-Alaska. Secondo, il tentativo di definire rapidamente una linea comune fra capitali disallineate, soprattutto di fronte a un Trump che sembra aver abbozzato una visione della “pace” più vicina agli interessi russi che a quelli europei. Terzo, la dimensione simbolica: il summit di Anchorage ha imposto un nuovo benchmark strategico, e Bruxelles ha bisogno di rispondere in modo visibile e coeso, per non apparire del tutto subalterna agli occhi di Kiev e delle opinioni pubbliche occidentali.

In definitiva, la riunione straordinaria di oggi, 16 agosto, non è solo un gesto ordinato di routine diplomatica, ma la fotografia di un’Europa che, tesa e disorientata, cerca affannosamente di non restare relegata a spettatrice delle dinamiche transatlantiche che la sovrastano

Le letture degli esperti politologi internazionali

Esperti occidentali – tra cui CSIS, Atlantic Council, Foreign Policy – hanno registrato come Putin abbia presentato condizioni che avrebbero reso inevitabile un rifiuto da parte di Kiev, mettendo in luce una dinamica in cui la responsabilità di un mancato accordo rischia di ricadere sull’Ucraina. Un’analisi dell’Atlantic Council ribadisce che questi negoziati sembrano preparati senza il coinvolgimento diretto di Zelenskyy o dell’Europa, alimentando dubbi su chi, di fatto, paga il prezzo della mancanza di progressi (ABCNews). Questo tipo di dinamica può essere letto, alla stregua di una maskirovka, come una manovra russa per giocare d’anticipo, indugiare e consolidare posizioni, trasformando un vertice di contenuti in una questione di posture e status.

In questa direzione si è espresso anche il panel di PBS NewsHour, dove David Brooks ha definito l’incontro un «nothingburger», un’operazione di pura facciata, senza risultati concreti, mentre Jonathan Capehart ha avvertito che i veri timori si nascondono nelle conversazioni a porte chiuse, che lasciano l’Europa e Kiev in una posizione di vulnerabilità.

Tra gli esperti russi Dmitri Trenin ha descritto il summit in Alaska come un passaggio in cui Mosca riafferma la propria legittimità diplomatica e si riposiziona come interlocutore inevitabile nel sistema internazionale, generando una dinamica strutturale piuttosto che tattica (GBH). In questa chiave, Trenin sottolinea il carattere revisionista, non rivoluzionario dell’approccio russo: il Cremlino non mira a rovesciare l’ordine mondiale, ma a costringerlo a riconoscerlo come polo imprescindibile (Russia in Global Affairs). Sul piano comunicativo, ha evidenziato la gestualità di Putin durante l’incontro: rilassato, sorridente e persino imitativo delle posture di Trump, segni interpretati da analisti come riflesso di soddisfazione per gli esiti del vertice (Vesti.ru).

In Cina, il Global Times ha descritto il summit di Anchorage come «altamente simbolico e amichevole», rimarcando che l’atmosfera percepita era di parità pragmatica: un segnale forte, secondo Pechino, che il percorso verso un mondo multipolare non è più reversibile. E proprio questa “parità scenica” è, secondo me, un messaggio a Pechino: Washington tratta con Mosca in una chiave che può ridurre la dipendenza russa dall’ombrello cinese, o almeno modularla.

In India gli esperti, pur non avendo pronunciato dichiarazioni esplicite in merito al summit, hanno accolto con favore l’iniziativa diplomatica, insistendo sul valore del dialogo e della diplomazia per un futuro di pace (Economic Times). Alcune analisi internazionali suggeriscono che New Delhi osservi con attenzione l’evoluzione dei flussi energetici, considerando la sua forte dipendenza dalle importazioni di petrolio russo, ma questa rimane un’interpretazione informata, non una posizione formulata ufficialmente. Questo conferma che il multipolarismo operativo si misura su energia, corridoi e tariffe, più che su formule retoriche.

Dalla prospettiva britannica, analisti di Chatham House hanno definito l’incontro una vittoria di facciata per Putin: il summit ha rimosso dal tavolo il tema delle sanzioni, ha interrotto l’isolamento internazionale della Russia e ha consentito a Mosca un margine temporale per consolidare le proprie posizioni. Tutto questo, prima ancora di discutere eventuali accordi veri, che restano confinati a corridoi chiusi e trattative riservate.

La regia occulta: chi muove i fili?

Anchorage non è stato un vertice qualsiasi, ma un palcoscenico minuziosamente predisposto. La scelta dell’Alaska — cerniera naturale tra Stati Uniti e Russia, antico avamposto della Guerra fredda artica e oggi snodo di rotte polari, cavi e posture militari — è insieme segnale simbolico e messaggio strategico: il negoziato non riguarda solo l’Europa, ma l’intero emisfero nord, con lo Stretto di Bering come cardine di transito e deterrenza. La letteratura strategica recente lo conferma: la bastion defence russa sul fronte artico e la crescita del traffico nel Bering indicano la centralità del teatro polare nell’equilibrio tra potenze.

Sul piano scenico, la coreografia è stata calibrata al millimetro: accoglienza sul tappeto rosso, sorrisi composti, trasferimento in coppia sulla limousine presidenziale — un’iconografia della parità che ha fatto il giro del mondo — e conferenza congiunta senza domande. Tutto avvalorato da cronache convergenti delle principali agenzie.

Qui si colloca quello che io definisco il «copione in quattro atti»:

  • Atto I – Anchorage: messa in scena della parità simbolica e “sdoganamento reciproco”. Chiusura con la mossa più densa di sottotesto: Putin che, in inglese e davanti alle telecamere, invita Trump al prossimo incontro a Mosca («Next time in Moscow»). È un gesto non estemporaneo — diplomaticamente, simili inviti si preparano ex ante — e serve a imporre reciprocità di palcoscenico.
  • Atto II – Studio Ovale: il rientro a Washington come “camera di compensazione” politica, con Zelensky sotto pressioni multilivello — militari, finanziarie, esercitate attraverso conti offshore, strumenti giudiziari internazionali e leve creditizie — prima di qualsiasi codifica tecnica.
  • Atto III – Washington europea: I leader UE, convocati sotto regia americana, sono chiamati a ratificare un impianto già delineato altrove. Qui l’Europa diventa cornice scenica, costretta a recitare il ruolo di comparsa per legittimare simbolicamente ciò che Washington e Mosca hanno già scritto.
  • Atto IV – “Pace storica”: summit planetario e firma scenica, con le condizioni reali custodite nei protocolli riservati. Questo, però, non accadrà adesso (almeno per ora). Nessuna fine imminente e definitiva della fantaguerra in Ucraina. Il “conflitto” è propedeutico all’aumento del costo delle materie prime in Europa per impoverirla e indebolirla ulteriormente prima di essere probabilmente fagocitata e divisa.

Le leve invisibili che sorreggono questo processo sono ben note: il controllo sul dollaro e sulle camere di compensazione, i regimi di sanzioni primarie e secondarie, l’impiego dello strumentario giudiziario internazionale e la gestione della percezione attraverso media e piattaforme digitali. Il summit, in questa chiave, ha avuto valore costitutivo: prima si sancisce la parità e la legittimazione reciproca, poi si costruisce l’ingegneria delle clausole. Il fatto che la conferenza si sia conclusa senza decisioni operative né domande dei giornalisti mostra chiaramente la volontà di preservare lo spazio negoziale lontano dai riflettori.

Un’ultima nota di semantica politica e simbolica. La scelta dell’Alaska, con l’Artico in primo piano e l’eco delle rotte del Nord, parla anche agli attori che leggono la geopolitica attraverso il linguaggio dei simboli: luogo, gesto e cornice funzionano da segnali di «ingresso in un nuovo teatro». È una grammatica antica del potere: la diplomazia di palcoscenico serve a testare mercati e opinioni, mentre le decisioni si maturano “in stanze senza luce”.

Su questo stesso registro è opportuno ricordare che i leader politici mantengono pubblicamente rapporti con reti religiose e comunitarie. Non si tratta di allusioni a regie confessionali occulte, ma di fatti verificabili e istituzionalmente registrati. Nel 2025 la Casa Bianca ha rinnovato, come avviene annualmente da decenni in modo bipartisan, il proclama dell’ Education and Sharing Day in memoria di Menachem Mendel Schneerson, il Rebbe di Chabad-Lubavitch. Nello stesso anno, a febbraio, Vladimir Putin ha ricevuto al Cremlino il Rabbino Capo di Russia Berel Lazar, in un incontro ufficiale che ha avuto ampia eco nei media russi e internazionali. Sono episodi che mostrano come diplomazia, soft power religioso e proiezione d’immagine si intreccino tanto nelle democrazie quanto nei regimi, certo senza per questo costituire prova apodittica di poteri occulti.

Eppure, a un livello meno visibile, la coreografia di Anchorage si lega a tradizioni ben più antiche: il potere globale non si nutre soltanto di clausole finanziarie e protocolli militari, ma anche di simboli iniziatici e di linguaggi esoterici che segnano da secoli la liturgia delle élite. La stessa letteratura metapolitica sulle Ur-Lodges ha mostrato come ritualità cabalistiche e codici massonici filtrino nell’architettura delle decisioni internazionali, non come superstizione folclorica ma come grammatica di riconoscimento interno fra consorterie. In questo senso, l’Alaska è divenuta non soltanto cornice geopolitica, ma vero atto liminale: un rito d’ingresso a un ordine che cerca legittimazione attraverso la scenografia del potere, mentre le vere decisioni scorrono in reti invisibili che attingono tanto alle banche centrali quanto a quegli stessi codici simbolici che, sotto diverse forme, accompagnano la politica mondiale fin dalle sue origini.

Multipolarismo: illusione o nuovo assetto?

Il summit di Anchorage non è stato un episodio estemporaneo, ma la manifestazione scenica di un patto concepito da molto tempo, probabilmente da anni: Un disegno volto a neutralizzare la versione del “Grande Reset” e a restituire agli Stati una parvenza di sovranità, incastonata tuttavia all’interno di un Nuovo Ordine Mondiale multipolare. Sorge allora una domanda inevitabile: il multipolarismo rappresenta davvero una liberazione per i popoli o costituisce soltanto la redistribuzione delle sfere d’influenza tra superpotenze rivali? È emancipazione o nuova gabbia, dove le catene si moltiplicano, pur mutando forma e colore?

In questa prospettiva si colloca l’avvertenza di Lucio Caracciolo: multipolare non significa più libero, ma più complesso, con margini di autonomia che si aprono e si richiudono secondo la geometria variabile degli equilibri imperiali. Non è l’alba di una democrazia planetaria, bensì la riemersione del concerto delle potenze, con nuovi orchestrali ma con la stessa partitura di fondo. La scena di Anchorage, con la sua teatralità calibrata, conferma questa lettura: una regia occulta prova a costruire un equilibrio non già per i popoli, ma per i mercati, per i flussi energetici, per le architetture del potere finanziario.

Gli Stati arabi, il blocco dei BRICS, tra cui la Cina e l’India, leggono in questo processo l’occasione per affermare un ruolo più autonomo e per ridimensionare l’egemonia del dollaro, accelerando i progetti di dedollarizzazione e promuovendo valute alternative ancorate a materie prime e/o criptovalute di Stato. È la nuova grammatica delle relazioni internazionali: blockchain, metalli preziosi e stablecoin si offrono come strumenti di emancipazione monetaria, ma al contempo rischiano di diventare nuove catene dorate, strumenti di sorveglianza globale travestiti da libertà. L’illusione dell’oro digitale ripropone la tentazione del vitello d’oro di biblica memoria: ciò che promette emancipazione rischia di trasformarsi in culto idolatrico del dato e del codice.
L’Europa, al contrario, si muove in un paesaggio di crescente vulnerabilità: ridotta a periferia di imperi antagonisti, incapace di dettare tempi e contenuti, appare condannata a una progressiva frattura. È qui che consegno per la prima volta alla scrittura una previsione che ho enunciato più volte nelle mie dirette sin dall’apertura del canale Telegram nel 2021, e della quale rivendico sin d’ora la paternità intellettuale: l’Europa finirà col dividersi in due tronconi, un’Europa occidentale vincolata all’alleanza atlantica e un’Europa orientale destinata a confluire nel progetto eurasiatico. In questo processo, anche l’Italia si orienterà inevitabilmente verso l’Eurasia, attratta dall’orbita continentale che si va delineando a Oriente. Sono ben consapevole che, in questa fase storica, tale congettura possa apparire ardita, persino fantascientifica; eppure, se la si osserva nel quadro dei processi profondi in atto, essa diviene meno improbabile di quanto oggi si voglia credere. Che l’asse tra Stati Uniti e Russia trovi o meno un modus vivendi, la tanto proclamata «autonomia strategica europea» resterà un artificio retorico. E se tale asse dovesse spezzarsi, l’Unione si ritroverebbe ugualmente priva di strumenti reali per incidere. Così, il continente che un tempo dettava le forme della civiltà universale rischia di scoprire se stesso relegato al ruolo di spettatore della propria irrilevanza

Nell’orizzonte simbolico ed esoterico, il multipolarismo appare come l’illusione dell’albero sefirotico spezzato: i poli si moltiplicano, ma tutti attingono alla stessa linfa invisibile, fatta di logge, think tank e consorterie che trascendono gli Stati nazionali. Anchorage 2025 diventa così la certificazione che il mondo non parla più la lingua dell’unipolarismo, ma già respira il dialetto del multipolarismo: un babelico intreccio di idiomi diversi, animato però dalla medesima superbia architettonica che un tempo innalzò la torre.

La vera questione non è se questo linguaggio sopravviverà, ma chi scriverà le regole della nuova grammatica globale e, soprattutto, chi rimarrà schiacciato tra le sue quinte. Se a trarne beneficio saranno davvero i popoli, o se invece resteranno spettatori inconsapevoli di una nuova scenografia del potere, dove i fili vengono mossi non da governi visibili, ma da élite che operano oltre le istituzioni, oltre l’economia, tra la finanza occulta, la gnosi dei simboli e l’arte sottile della manipolazione delle percezioni.

Conclusione

L’Alaska 2025 non è stato un semplice incontro tra due presidenti. È stato un rito di passaggio, un messaggio cifrato rivolto agli alleati e ai rivali, ma soprattutto alle élite che, dietro il sipario, governano la scena mondiale. Non la pace era l’oggetto reale, bensì il ridisegno della mappa dei poteri, la rifondazione di un’architettura che pretende di sostituire l’universalismo infranto con la contrattazione fra imperi.

Caracciolo ha parlato di geometria variabile: meno retorica universalista, più equilibrio tra potenze. Ma l’immagine che Anchorage restituisce è ancora più inquietante: un mondo in cui i sorrisi di Trump e Putin fungono da velo, dietro il quale si muovono attori senza volto — gestori delle risorse energetiche, registi dell’intelligence, custodi delle piattaforme digitali, architetti delle catene finanziarie. La loro è la vera regia. I capi di Stato, inclusi Trump e Putin, non sono che interpreti di un copione già scritto altrove.

La storia insegna che i vertici internazionali valgono meno per ciò che viene proclamato ufficialmente e molto più per ciò che resta sottaciuto. Anchorage lo ha mostrato con chiarezza: il vecchio ordine unipolare appartiene ormai al passato, e il multipolarismo non è un progetto futuro ma la grammatica già operante del presente. Già dopo il colpo di Stato globale del 2020. Eppure, ogni grammatica non è mai neutra: è un codice di potere, un linguaggio iniziatico che stabilisce chi detiene la parola, chi deve limitarsi ad ascoltare e chi viene escluso dal discorso.

Resta dunque la domanda che incombe come un verdetto: chi scriverà davvero le regole di questo nuovo gioco invisibile? I popoli, i governi che pretendono di rappresentarli, oppure le élite occulte che da secoli stringono patti silenziosi nel back office del potere? Anchorage non è stato che un prologo: un’ombra dietro il sipario, un segnale che la vera partita non si decide nelle conferenze stampa, ma nei templi nascosti del dominio globale, tra simboli, reti digitali e circuiti finanziari. La scena pubblica resta facciata; la regia, invece, continua a operare nell’oscurità.

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