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L’antisemitismo di Israele

© Filippo Chinnici – tutti i diritti riservati

Nota metodologica
Il presente studio non ha alcuna finalità polemica né intende esprimere giudizi discriminatori verso gli ebrei in quanto tali, né si propone di negare o relativizzare le persecuzioni storiche subite dal popolo ebraico. Al contrario, l’analisi si sviluppa su un piano linguistico, genealogico, teologico ed esegetico, con l’obiettivo di decostruire criticamente l’uso ideologico e politico del termine «semitismo» operato da alcune correnti del sionismo contemporaneo.
Distinguere tra identità ebraica religiosa, identità culturale diasporica e progetto nazional-sionista è necessario per evitare ogni forma di essentialismo — ossia l’idea che esista un’essenza ebraica fissa, unica e immutabile nella storia.
Il presente lavoro si oppone fermamente ad ogni forma di razzismo, antigiudaismo, antisemitismo o incitamento all’odio, e si colloca nell’alveo della libertà di ricerca, del rigore scientifico e del rispetto della verità biblica.

Il termine «antisemitismo» evoca, nella coscienza comune, l’odio e la persecuzione contro gli ebrei. Così è stato codificato nel linguaggio politico del XIX e del XX secolo, fino a diventare sinonimo di razzismo e intolleranza. Eppure, una lettura attenta delle fonti bibliche, storiche e filologiche rivela una realtà ben più complessa e paradossale.

Se torniamo al significato originario di «semitico», scopriamo che i veri eredi di questa designazione sono i popoli di lingua semitica del Vicino Oriente: i palestinesi, gli abitanti di Gaza, i popoli arabi della regione. Al contrario, la maggioranza dell’ebraismo moderno – costituita per oltre l’80% da Ashkenaziti e per circa il 10–16% da Sefarditi, secondo dati riportati dall’Encyclopaedia Britannica e da documenti della CIA – non discende da Sem, ma da Jafet e da altre etnie mediterranee e nordafricane, avendo costruito la propria identità attraverso conversioni e stratificazioni culturali avvenute in Europa e nel Maghreb (altri gruppi minoritari sono: i Mizrahì del Vicino Oriente e dell’Asia centrale; i Beta Israel d’Etiopia; i Bene Israel e i Cochini dell’India; i gruppi caucasici come gli ebrei di Montagna; le comunità dell’Asia centrale come i Bukhari; nonché altre comunità storiche quali gli ebrei yemeniti, marocchini e curdi).

In questo contesto, il sionismo ha compiuto una forzatura concettuale: ha strumentalizzato la parola «semitismo» come scudo ideologico e politico, trasformandola in un’arma retorica capace di intimidire e soffocare sul nascere qualsiasi critica all’ideologia sionista, il cui obiettivo dichiarato è la creazione di un grande Stato di Israele. Secondo questa logica, persino ebrei ortodossi antisionisti – come i membri di Neturei Karta – verrebbero paradossalmente bollati come “antisemiti”. Ma antisionismo e antisemitismo non sono sinonimi: il primo è la critica a un progetto politico moderno, il secondo è un pregiudizio etnico-religioso che nulla ha a che vedere con la legittima analisi storica o teologica.

Ne deriva un rovesciamento sorprendente: chi oggi si presenta come vittima storica dell’antisemitismo non è, in senso proprio, semita; mentre coloro che subiscono le sue persecuzioni quotidiane, i palestinesi, lo sono a pieno titolo. Lo Stato di Israele, retto in larga misura da élite ashkenazite e sostenuto da una minoranza sefardita, incarna così una delle forme più clamorose e strutturali di antisemitismo: quella rivolta contro un popolo autenticamente semita.

1. Origine e uso del termine «semitico»

Il termine «semitico» non affonda le sue radici nella Bibbia, ma nasce nel XVIII secolo, nell’ambito della scuola filologica di Göttingen. Fu August Ludwig von Schlözer a coniare l’aggettivo nel 1781, diffuso poi da Johann Gottfried Eichhorn nel 1787, come strumento tassonomico per classificare alcune lingue del Vicino Oriente e dell’Africa settentrionale – ebraico, arabo, aramaico, accadico, fenicio – ricondotte simbolicamente alla discendenza di Sem, figlio di Noè. Si trattava, in origine, di una pura categoria linguistica, elaborata con la stessa logica classificatoria con cui Linneo aveva ordinato il mondo naturale, non di un’etichetta etnica né razziale.

Nel XIX secolo, tuttavia, la nozione fu caricata di significati ideologici, come ha ampiamente mostrato Céline Trautmann-Waller nel suo studio Semites and Semitism: From Philology to the Language of Myth (Philological Encounters, 2 [2017], pp. 346–370). Ernest Renan vi proiettò la propria visione di un «genio semitico» modellato dal deserto: portatore di un istinto monoteistico ma privo di creatività mitica, contrapposto all’ellenismo come culla della filosofia e della scienza. Questa riduzione naturalistica aprì la strada a due usi opposti ma speculari. Da un lato, le teorie razziali europee trasformarono i «Semiti» in una categoria pseudoscientifica funzionale a giustificare discriminazioni e gerarchie etniche; dall’altro, il sionismo ne fece uno strumento retorico per legittimare la pretesa di una continuità diretta tra gli ebrei dell’Europa orientale e i popoli biblici della regione siro-palestinese.

2. Gaza: un popolo semita

La Striscia di Gaza, secondo i dati ufficiali delle Nazioni Unite, ospita circa 2,4 milioni di abitanti, in larghissima parte palestinesi arabofoni. La lingua parlata, l’arabo palestinese, appartiene al gruppo siro-palestinese ed è parte integrante della famiglia semitica. Già questo solo dato, sul piano strettamente scientifico, basta a qualificare gli abitanti di Gaza come semiti, poiché la semiticità non è un concetto razziale, ma linguistico-culturale, radicato nella storia del Vicino Oriente..

La continuità si coglie anche in prospettiva biblica, purché si distinguano correttamente i piani. La «Tavola delle Nazioni» (Genesi 10) colloca i Cananei—popolo originario della fascia costiera mediterranea che comprende Gaza—nella discendenza di Canaan, figlio di Cam e fratello di Sem (Genesi 10,6). Da un punto di vista genealogico biblico, dunque, i Cananei appartengono alla linea camitica; sul piano linguistico e culturale, tuttavia, archeologia e filologia attestano che essi parlavano dialetti semitici nord-occidentali, progenitori dell’ebraico e dell’aramaico. È per questa ragione che gli studiosi qualificano il loro orizzonte come semitico: la categoria «semiticità» designa, in sede moderna, una famiglia linguistica, non un’appartenenza “di sangue”. Sotto questo profilo, i Cananei—e con essi Gaza—si inscrivono nello stesso continuum degli Ebrei e degli Aramei.

Le fonti epigrafiche assire e babilonesi corroborano tale collocazione. Negli Annali di Sennacherib (Daniel David Luckenbill, The Annals of Sennacherib, Oriental Institute Publications, vol. 2, Chicago: University of Chicago Press, 1924, oggi fruibile anche online), il sovrano assiro ricorda di aver sottomesso «Ascalona, Ekron e Gaza» nelle sue campagne in Palestina, segno che la città era riconosciuta come parte del mondo siro-palestinese semitico; analogamente, iscrizioni di Nabucodonosor II citano Gaza accanto ai regni di Giuda e di Filistea, ribadendone l’appartenenza a tale orizzonte.

Anche la toponomastica — rimasta ininterrotta per millenni — conferma l’evidenza:

I confini dei Cananei andarono da Sidon, in direzione di Gherar, fino a Gaza e in direzione di Sodoma, Gomorra, Adma e Seboim fino a Lesa (Ge 10,19)

Il nome ebraico עַזָּה (ʿAzzāh), attestato già in Genesi 10:19, sopravvive senza soluzione di continuità nel greco Γάζα (Gáza) e nell’arabo غزّة (Ghazza). Una tale costanza linguistica testimonia l’appartenenza semitica della città al di là di ogni frattura etnica o politica.

Considerati dunque i dati linguistici contemporanei, la stratigrafia biblica delle genealogie, le epigrafi del Vicino Oriente antico e la continuità toponomastica, la conclusione è univoca: gli abitanti di Gaza sono e restano un popolo semita. Per questo, sterminarli — come lo Stato d’Israele sta facendo — non è soltanto un crimine contro l’umanità: è un atto di autentico antisemitismo.

3. Genealogia biblica: Ashkenaz non discendente di Sem

La cosiddetta Tavola delle Nazioni (Genesi 10) è uno dei documenti più antichi relativi alla genealogia dei popoli del Vicino Oriente. Nel testo leggiamo: «I figli di Gomer: Aschenaz, Rifat e Togarma» (Genesi 10,3). Poiché Gomer è a sua volta figlio di Jafet (Genesi 10,2), ne consegue che Ashkenaz – considerato capostipite eponimo degli Ashkenaziti – appartiene alla linea jafetica (cioè discendente da Jafet) e non a quella semitica (cioè discendente da Sem, come gli abitanti di Gaza). Questo dato, apparentemente marginale, è in realtà decisivo per la discussione sull’identità etnica degli “ebrei” ashkenaziti.

È necessario distinguere con rigore i piani genealogico e linguistico. La Bibbia colloca i popoli secondo le tre linee di Sem, Cam e Jafet, mentre la moderna filologia usa il termine «semitico» in senso linguistico-culturale. I due registri non sempre coincidono: un popolo può essere genealogicamente camita e tuttavia linguistico-culturale semita, come nel caso dei Cananei; viceversa, può rivendicare un’ascendenza biblica e tuttavia esprimersi in una lingua germanica, come nel caso degli Ashkenaziti.

Gli studi biblici e storico-orientalistici confermano con chiarezza questa lettura. Aaron Demsky, in una ricerca dedicata alla genealogia ebraica, sottolinea come la figura di Ashkenaz appartenga inequivocabilmente al contesto jafetico e non semitico. La trasposizione del nome «Ashkenaz» agli ebrei medievali dell’Europa orientale non ha dunque alcuna base genealogica, ma risponde a una pura convenzione culturale e toponomastica (Demsky, The Genesis of Jewish Genealogy, «Genealogy» 7/4 [2023]: 91).

Già agli inizi del XX secolo, Morris Jastrow aveva messo in evidenza come Genesi 10 distingua con nettezza i discendenti di Sem da quelli di Cam e di Jafet, collocando Ashkenaz nel secondo gruppo. Nel saggio The Hamites and Semites in the Tenth Chapter of Genesis («Proceedings of the American Philosophical Society» 43, n. 176 (aprile 1904), pp. 173–207), Jastrow ribadisce che l’etnonimo «Ashkenaz» è jafetico, non semitico.

Più recentemente, Frank Crüsemann ha mostrato che le genealogie bibliche non sono semplici elenchi, ma strumenti teologici e identitari con cui Israele definisce se stesso rispetto agli altri popoli. La collocazione di Ashkenaz al di fuori della linea semitica non è casuale, ma funzionale a rimarcare i confini identitari di Israele come popolo discendente da Sem (Crüsemann, «Human Solidarity and Ethnic Identity: Israel’s Self-Definition in the Genealogical System of Genesis», in M. G. Brett [a cura di], Ethnicity and the Bible, Leiden: Brill, 1996, pp. 57–76).

In conclusione, la denominazione «Ashkenaz» attribuita agli ebrei europei medievali rappresenta un trasferimento culturale e simbolico, non una continuità genealogica. Essa riflette un’identità retrospettivamente costruita, non una discendenza etnica semitica. Mentre dunque i popoli della regione siro-palestinese – inclusi gli abitanti di Gaza – appartengono a pieno titolo alla linea semitica, gli Ashkenaziti devono essere collocati, in termini strettamente biblici e storico-orientalistici, all’interno della linea jafetica, estranea per definizione al ceppo semitico.

4. Conversione khazara: il dato storico

La “conversione” di massa all’ebraismo del regno dei Khazari – popolazione di origine turco-caucasica stanziata tra il basso Volga e il Caucaso settentrionale – non appartiene al mito, ma alla storia. Prima di adottare la Legge mosaica, i Khazari professavano il Tengrismo, una religione di matrice turcica fondata su credenze sciamaniche e animistiche, intrecciate a riti guerrieri e a pratiche sacrali che prevedevano, nei funerali delle élite, anche sacrifici umani. L’evento della loro adesione collettiva all’ebraismo è attestato da un ampio ventaglio di fonti concordi, dall’Oriente arabo-persiano al mondo ebraico, bizantino e latino, tutte unanimi nel riconoscere che un’intera realtà politica aveva abbracciato la religione ebraica.

Gli autori arabi e persiani del X-XI secolo – Ibn al-Faqīh, al-Masʿūdī nel suo Murūj al-Dhahab («I prati d’oro»), Ibn Ḥawqal nella Ṣūrat al-Arḍ e al-Bīrūnī nell’Āthār al-Bāqiya – riferiscono esplicitamente che i Khazari erano «giudei per religione». La convergenza di tali testimonianze dimostra come, nel cuore della steppa eurasiatica, fosse sorto un regno ufficialmente giudaizzato impregnato di sciamanismo.

Parallelamente, la tradizione ebraica medievale conserva memoria dell’evento. La lettera di Ḥasdai ibn Shaprut al re Giuseppe di Khazaria, databile al X secolo e tramandata in tradizione sefardita, rappresenta una fonte diretta: in essa il sovrano stesso rivendica l’adozione della Torah come fondamento identitario del proprio popolo (cfr. Golb–Pritsak, Khazarian Hebrew Documents of the Tenth Century, Ithaca: Cornell University Press, 1982).

Sul versante bizantino, Costantino VII Porfirogenito, nel De administrando imperio (X secolo), menziona esplicitamente i Khazari come popolo di fede mosaica. Le fonti armene e georgiane, rilette da Dan D.Y. Shapira (Armenian and Georgian Sources on the Khazars: A Re-evaluation, in The World of the Khazars, Leiden–Boston: Brill, 2007, pp. 307–352), confermano il quadro, qualificando i Khazari come «giudei» o «seguaci della legge di Mosè». Non si tratta di leggende tarde, ma di percezioni condivise nel Caucaso medievale, dove l’identità giudaizzata dei Khazari era riconosciuta come tratto caratterizzante.

Perfino l’Occidente latino non ignorò il fenomeno. Christianus di Stavelot, noto anche come Druthmar d’Aquitania, nel suo Expositio in Matthaeum Evangelistam (IX secolo), colloca i Khazari nell’orizzonte escatologico di «Gog e Magog», identificandoli come un popolo chiamato “Gazari” che «era già circonciso e osservava tutto il giudaismo» (omnem iudaismum observat: in Patrologia Latina, a cura di J.-P. Migne, tomo 106, col. 1456). Questo passo, analizzato da Peter B. Golden in The World of the Khazars (Handbook of Oriental Studies, vol. 17, Leiden–Boston: Brill, 2007, pp. 139–141), rappresenta una delle più antiche attestazioni occidentali della percezione dei Khazari come popolo giudaizzato.

La storiografia moderna ha consolidato la storicità di tali testimonianze. Omeljan Pritsak ha mostrato come la scelta religiosa dei Khazari rispondesse a esigenze geopolitiche oltre che spirituali («The Khazar Kingdom’s Conversion to Judaism», Harvard Ukrainian Studies 2/3 [1978], pp. 261–281). Peter B. Golden ha evidenziato il significato politico della conversione negli equilibri tra Bisanzio e il califfato (op. cit., pp. 123–162). Moshe Gil ne ha riaffermato la storicità, pur discutendone l’estensione («Did the Khazars Convert to Judaism?», Revue des études juives 170/1–2 [2011], pp. 1–32).

Sebbene alcuni studiosi, come Shaul Stampfer («Did the Khazars Convert to Judaism?», Jewish Social Studies 19/3, 2013, pp. 1–72), abbiano ridimensionato la portata della conversione circoscrivendola alle élite, il consenso accademico riconosce comunque la realtà storica del fenomeno.

Ne consegue che l’ebraismo khazaro fu un fatto autentico, destinato a incidere in modo significativo sulla formazione delle comunità ebraiche europee. Parlare di «purezza semitica» degli Ashkenaziti è dunque improprio: la loro identità non discende da una continuità lineare con i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, ma da stratificazioni storiche complesse, nelle quali la componente jafetica e caucasica ebbe un peso determinante.

5. La linguistica: Yiddish e identità non semitica

Lo yiddish è la lingua storica degli ebrei ashkenaziti, formatasi come idioma vernacolare nell’Europa centro-orientale tra IX e X secolo. Nato dall’incontro tra varietà alto-tedesche medievali e componenti ebraico-aramaiche, successivamente arricchito da apporti slavi, lo yiddish si colloca genealogicamente nel gruppo germanico occidentale. A differenza dell’ebraico biblico e rabbinico – che nella diaspora mantenne una funzione liturgica e simbolica – lo yiddish divenne la lingua quotidiana della comunicazione e della vita sociale ashkenazita. Per l’ebraismo europeo svolse la stessa funzione che i volgari romanzi ebbero per le popolazioni latine medievali: una lingua viva e popolare, distinta dal codice sacro della tradizione scritta.

Il dibattito scientifico ha però messo in luce la profondità del contatto con altre lingue. Paul Wexler, nel volume Silk Road Linguistics. The Birth of Yiddish and the Multiethnic Jewish Peoples on the Silk Roads, 9–13th Centuries (Wiesbaden: Harrassowitz, 2021), sostiene che lo yiddish sia una lingua slava «relessificata»: una grammatica e fonologia di matrice slava con lessico germanico sovrapposto. Tale quadro spiegherebbe anche l’insolita quantità di ebraismi presenti, introdotti per colmare i limiti dei germanismi. Wexler rintraccia inoltre influssi iranici e arabi (ad esempio i plurali spezzati, i costrutti di legamento e le forme perifrastiche), che inseriscono lo yiddish in una cornice più ampia, segnata dai contatti eurasiatici e dalle reti mercantili dei radhaniti (antichi commercianti ebrei itineranti). Questa ipotesi, già anticipata in «Yiddish—the Fifteenth Slavic Language» (International Journal of the Sociology of Language, 91 [1991]) e in The Ashkenazic Jews (Slavica, 1993), trova nel lavoro del 2021 la sua formulazione più organica.

La posizione prevalente nella ricerca resta tuttavia quella di Alexander Beider, che replica a Wexler collocando la nascita dello yiddish in area renana come varietà germanica, solo successivamente arricchita dai contatti slavi («The Birth of Yiddish and the Paradigm of the Rhenish Origin of Ashkenazic Jews», Revue des Études Juives 163/1–2 [2004], pp. 193–244).

Su questa linea si collocano anche studi più recenti che, pur senza spostare lo yiddish dall’alveo germanico, ne hanno analizzato in modo sistematico l’esito del contatto slavo. Si veda il volume collettaneo Yiddish as a Mixed Language: Yiddish–Slavic Language Contact and Its Linguistic Outcome (Brill, 2022/2023 estratto) e la ricerca di Asya Pereltsvaig sui mutamenti sintattici slavo-indotti, in particolare l’estensione della regola V2, presentata in Formal Approaches to Slavic Linguistics 24.

In sintesi, lo yiddish è genealogicamente una lingua germanica con profonda stratificazione slava, e l’ebraico moderno è una lingua semitica riplasmata da forti innesti europei. Questo duplice profilo linguistico rende insostenibile ogni pretesa di «purezza» semitica per l’ethnos ashkenazita, confermando che la linguistica, lungi dall’essere neutra, svela la natura storicamente costruita delle identità ebraiche moderne.

ANNOTAZIONE METODOLOGICA

L’indagine sulle genealogie, seppur utile come esercizio storico, linguistico e genetico, non deve mai essere assolutizzata né caricata di un valore che la Scrittura le rifiuta.

Paolo apostolo ammonisce:
«Non darti a favole e a genealogie senza fine, che producono dispute piuttosto che l’opera di Dio che è fondata sulla fede» (1 Timoteo 1,4).
E ancora:
«Evita le questioni stolte, le genealogie, le contese e le dispute intorno alla legge, perché sono inutili e vane» (Tito 3,9).

Non è dunque la linea del sangue a determinare la fedeltà a Dio, bensì la fede e l’obbedienza alla Sua Parola. Tuttavia, poiché il sionismo politico ha elevato la pretesa di una “purezza genealogica” a cardine identitario e teologico, diviene doveroso verificare tale assunto anche con gli strumenti della genetica delle popolazioni, smascherandone l’inconsistenza e rivelandone la matrice ideologica.

6. Genetica: l’ascendenza europea

La ricerca genetica ha evidenziato una netta differenziazione tra linee paterne e linee materne degli Ashkenaziti. Le analisi del cromosoma Y (Y-DNA), trasmesso per via maschile, mostrano affinità con le popolazioni del Vicino Oriente, suggerendo un contributo paterno mediorientale. Al contrario, lo studio del DNA mitocondriale (mtDNA), ereditato per via materna, rivela origini prevalentemente europee.

Uno studio decisivo è quello di Marta D. Costa e Joana B. Pereira et al., «A Substantial Prehistoric European Ancestry among Ashkenazi Maternal Lineages», Nature Communications 4 (2013): 2543 , che dimostra come circa l’80% delle linee mitocondriali ashkenazite derivi da antenate europee. Risultati analoghi erano già stati presentati da Doron M. Behar et al., «The Matrilineal Ancestry of Ashkenazi Jewry: Portrait of a Recent Founder Event», American Journal of Human Genetics 78/3 (2006), pp. 487–497, che mostra come circa metà della popolazione ashkenazita possa essere ricondotta a sole quattro donne: le loro linee, probabilmente di origine vicino-orientale, conobbero però la massima espansione in Europa nell’ultimo millennio. In direzione convergente, Abraham Zoossmann-Diskin («The Origin of Eastern European Jews Revealed by Autosomal, Sex Chromosomal and mtDNA Polymorphisms», Biology Direct 5 [2010]: 57) documenta un apporto europeo largamente dominante nelle linee materne.

In sintesi, pur restando riconoscibile un contributo paterno mediorientale, la componente materna è in grandissima parte europea, con una percentuale che si attesta intorno all’80%. Ne consegue che l’ethnos ashkenazita si formò prevalentemente attraverso processi di conversione e integrazione femminile in Europa antica e medievale, piuttosto che per trasmissione diretta e ininterrotta da un presunto ceppo «puro» semitico.

7. L’identità ibrida dei Sefarditi

Negli ultimi anni — con un’accelerazione particolare dopo i fatti del 2020 — l’attenzione si è concentrata soprattutto sugli Ashkenaziti, che secondo l’Encyclopaedia Britannica, costituiscono oltre l’80% dell’ebraismo contemporaneo. Tuttavia, anche i Sefarditi meritano uno sguardo attento. Le stime sulla loro consistenza demografica oscillano: alcune fonti, come il Simple English Wikipedia, li collocano fino al 16% della popolazione ebraica mondiale, mentre un documento declassificato della CIA parla di un 15% a fronte di un 85% ashkenazita. Nel complesso, questi dati mostrano come gli Ashkenaziti rappresentino la grande maggioranza del mondo ebraico, mentre i Sefarditi costituiscano una minoranza significativa.

Una vulgata storiografica ha attribuito ai Sefarditi — in contrapposizione agli Ashkenaziti — il ruolo di eredi più “autentici” dell’antico Israele. Tale rappresentazione poggia su tre presupposti: la presunta continuità genealogica diretta, l’omogeneità culturale iberica e il primato di una matrice semitica. Ma le fonti linguistiche, storiche e prosopografiche (cioè lo studio delle genealogie e delle biografie collettive) convergono nel delineare i Sefarditi come il risultato di un processo di giudaizzazione medievale di popolazioni iberiche e nordafricane (berbere e arabo-andaluse), con un apporto palestinese quantitativamente secondario. Ne consegue che il paradigma della «purezza semitica» non regge neppure per il ramo sefardita.

Di particolare rilievo, in questo contesto, è il contributo di Paul Wexler, ebreo, linguista e filologo di fama internazionale, professore emerito all’Università di Tel Aviv. Specializzato nello studio storico-comparativo delle lingue giudeo-europee e semitiche, Wexler è considerato una figura di primo piano nella ricerca sulle lingue giudeo-romaniche, slave e semitiche. Le sue opere — tra cui The Non-Jewish Origins of the Sephardic Jews (Albany: SUNY Press, 1996) e Silk Road Linguistics (Wiesbaden: Harrassowitz, 2021) — hanno segnato profondamente il dibattito accademico, sostenendo che tanto l’ebraismo ashkenazita quanto quello sefardita siano il prodotto di processi storici di giudaizzazione e di stratificazione culturale, piuttosto che una continuità etnica lineare dall’antico Israele. L’argomento meriterebbe un’analisi a parte; qui mi limito ad alcune considerazioni di cui sono debitore al prof. Wexler.

A) Quadro etnogenetico: Nord Africa come culla e conversioni su larga scala

Paul Wexler, nel volume The Non-Jewish Origins of the Sephardic Jews, colloca la vera “patria” (homeland) sefardita nel Nord Africa già nel VII secolo. In quest’area — prima ancora della conquista islamica della Penisola Iberica — si era costituita una comunità giudaica composita, formata da prosèliti romanzi, berberi e arabi, innestata su un nucleo ebraico palestinese minoritario. Le conversioni, sia maschili che femminili, proseguirono tra l’XI e il XV secolo, coinvolgendo clan berberi islamizzati e popolazioni romanze iberiche. Il trasferimento in Hispania e, dopo il 1492, la diaspora verso l’Impero ottomano completarono la fisionomia sefardita. Tale dinamica dimostra che l’identità sefardita è essenzialmente storico-culturale, definita dall’adesione alla Torah e dal rito, più che da una continuità genealogica.

B) Linguistica: il giudeo‑spagnolo come traccia di una formazione mediterranea

Dal punto di vista genealogico, il giudeo-spagnolo (ladino) è una lingua romanza. Tuttavia, la sua struttura interna rivela una stratificazione mediterranea: accanto al sostrato ispanico e al lessico ebraico-aramaico, emergono calchi semantici, arabismi specifici, modelli derivativi e costrutti sintattici che rinviano a secoli di contatto con l’arabo e, in parte, con il berbero. Gli studi di Lévy (Le judéo-espagnol: une langue en contact, Peeters, 1992) e Bunis (A Lexicon of the Hebrew and Aramaic Elements in Modern Judezmo, Jerusalem, 1993) hanno dimostrato che il ladino non è il “volgare” di un popolo etnicamente omogeneo, ma l’idioma composito di comunità giudaizzate. Persino l’ambiguità glottonimica (ossia la confusione fra ladino scritto e parlato giudeo-spagnolo) è un segnale della natura pluristratificata e ibrida dell’identità sefardita.

C) Onomastica e prosopografia: tracce berbere e nordafricane

L’onomastica sefardita medievale (cioè lo studio dei nomi propri) registra numerosi antroponimi e cognomi con marcatori berberi o nordafricani. Basti citare figure come Dunaš ben Labraṭ (X sec.), Dunaš ben Tamim (Kairouan, X sec.) o il patronimico Nafūsī (da Nafūsa, Libia), che rimandano inequivocabilmente a radici maghrebine. Più in generale, la diffusione di elementi berberi nei nomi di ebrei dal Marocco alla Libia riflette l’inserzione di interi lignaggi locali nella compagine giudaica. Liquidare il fenomeno come semplice “moda araba” non basta a spiegare la sua ampiezza e sistematicità: siamo davanti a una prova diretta di ibridazione genealogica.

D) Fonti storiche: giudaizzazione in Iberia e Maghreb

Già nel tardoantico si registrano indizi di proselitismo e di ibridazione cultuale in Nord Africa. I concili ecclesiastici dell’epoca vietavano matrimoni misti e circoncisioni sugli schiavi cristiani, segno che tali pratiche erano diffuse; parallelamente, alcune fonti lamentavano la presenza di chierici “giudaizzanti”. Perfino le necropoli attestano riti misti, che riflettono la penetrazione di usi giudaici in comunità non ebraiche. Con l’avvento dell’Islam, la documentazione descrive società berbere solo superficialmente islamizzate, a lungo permeabili a pratiche sincretiche: proprio questo contesto rese plausibile l’adozione della Torah e delle norme mosaiche da parte di interi clan. In Iberia, l’età andalusa favorì ulteriormente il fenomeno, integrando nella compagine ebraica sia gruppi autoctoni romanzi sia elementi berberi migrati. Non a caso, la cosiddetta «età d’oro» sefardita fiorì in lingua araba e sotto la cornice politica dei regni berberi post-omayyadi: un indizio eloquente di una matrice culturale non palestinese, ma mediterranea e maghrebina.

E) Estensione semantica di «sefardita»: dal sangue al rito

Il termine «sefardita» ha progressivamente esteso il proprio significato, soprattutto in età moderna, fino a includere non solo i discendenti diretti degli espulsi da Spagna e Portogallo (1492–1497), ma anche comunità del Mediterraneo orientale e del Maghreb che adottarono il rito sefardita. Questo processo, consolidatosi nell’Impero ottomano attorno ai grandi centri di Salonicco, Costantinopoli e Safed, mostra chiaramente che l’identità sefardita non fu mai una genealogia compatta, bensì un contenitore liturgico-giuridico capace di integrare genti diverse sotto un’unica etichetta rituale. La “sefardicità”, dunque, si definì sul piano del rito e della tradizione, non sul piano del sangue, confutando ancora una volta l’idea di una continuità etnica lineare dall’antico Israele.

F) Breve risposta alle obiezioni degli studiosi “ebrei” sionisti.

  • Obiezione 1: «Le fonti genetiche mostrano continuità mediorientale».
    Risposta: È vero che alcuni marcatori paterni rinviano all’area siro-palestinese. Ma tale constatazione, lungi dal dimostrare una discendenza lineare dall’antico Israele, prova soltanto l’esistenza di flussi maschili minoritari lungo le rotte mediterranee. La genetica, nel suo insieme, racconta tutt’altro: come hanno mostrato Costa e Pereira (op. cit., 2013) e Behar (op. cit., 2006), l’80% delle linee materne sia sefardite sia ashkenazite è di origine europea; Zoossmann-Diskin (op. cit., 2010) ha confermato la preminenza di un apporto femminile europeo e nordafricano. La continuità mediorientale è dunque parziale e circoscritta alla linea paterna, mentre quella materna – che biologicamente determina la trasmissione del DNA mitocondriale – radica i sefarditi in Europa e nel Maghreb. È la prova che ci troviamo di fronte a un’identità formata da conversioni locali, non a un filone semitico “puro”.
  • Obiezione 2: «L’uso esteso dell’arabo in età andalusa prova l’orientalità ebraica».

    Risposta: Tale affermazione confonde lingua di cultura con identità genealogica. Che le élite sefardite abbiano prodotto in arabo la loro letteratura medievale dimostra soltanto la loro immersione nella koinè intellettuale di al-Andalus, esattamente come i Padri della Chiesa scrissero in greco senza per questo essere etnicamente greci. La cosiddetta «età d’oro» sefardita non rivela un’origine palestinese, ma la piena integrazione nella civiltà arabo-berbera iberica. Anzi, è un indizio contrario: se l’ebraismo sefardita avesse avuto una solida continuità con la Palestina biblica, avrebbe mantenuto almeno un legame diretto con l’ebraico come lingua colta, e non avrebbe scelto l’arabo come codice privilegiato. L’“orientalità” dei sefarditi è dunque, al massimo, culturale, non etnica.

  • Obiezione 3: «Gli arabismi del ladino derivano dallo spagnolo medievale, non dal contatto diretto».

    Risposta: Ridurre il fenomeno a meri arabismi transitati dallo spagnolo significa ignorare la profondità della stratificazione. Gli studi di Bunis e Lévy mostrano che il giudeo-spagnolo non si limita ad accogliere prestiti lessicali, ma incorpora calchi semantici e modelli sintattici che tradiscono un contatto diretto e prolungato con l’arabo e, in parte, con il berbero. Se fosse un semplice retaggio castigliano, non si spiegherebbero né l’ampiezza né la sistematicità dei tratti che eccedono l’orizzonte ispanico. Il ladino non è la lingua di un popolo “puro”, ma l’esito linguistico di comunità ibride, formate da processi di giudaizzazione e da innesti culturali mediterranei.

  • Obiezione 4: «L’onomastica nordafricana è solo moda araba».

    Risposta: Qui non si tratta di mode effimere, ma di radici profonde. L’onomastica sefardita medievale è punteggiata di cognomi e patronimici che tradiscono origini berbere e maghrebine: Nafūsī (da Nafūsa, in Libia), Labraṭ, Tamīm e molti altri. Non sono eccezioni marginali, ma linee genealogiche stabili, attestate da Kairouan fino al Marocco. Wexler e Hirschberg hanno dimostrato che l’inserzione di elementi berberi nell’onomastica riflette conversioni effettive di interi clan nordafricani. Liquidare il fenomeno come mera «influenza araba» significa ignorare la sistematicità prosopografica che trasforma la superficie linguistica in prova genealogica.

  • Obiezione 5: «L’estensione ottomana dell’identità sefardita prova la sua coesione etnica».

    Risposta: Nulla di più infondato: la diffusione del rito sefardita nell’Impero ottomano mostra esattamente il contrario. L’identità sefardita non fu mai una genealogia compatta, ma un contenitore liturgico-giuridico capace di integrare genti diverse – popolazioni del Mediterraneo orientale, del Maghreb e dei Balcani – sotto una medesima etichetta rituale. L’“unità sefardita” fu un prodotto storico della diaspora post-1492, non la prosecuzione lineare di un sangue semitico comune.

G) Nota metodologica.

La storiografia mainstream (Gerber, Hirschberg, Stillman) riconosce l’importanza dei processi di assimilazione e di conversione nella formazione delle comunità sefardite; Paul Wexler, spingendosi oltre, attribuisce un ruolo decisivo ai berberi e agli iberici convertiti. Anche senza condividere integralmente la sua cornice interpretativa, resta comunque smentita l’idea di una discendenza sefardita “pura” e lineare dall’antico Israele.

In estrema sintesi, il ramo sefardita — come quello ashkenazita — è il prodotto storico di conversioni, migrazioni e innesti culturali. La «semiticità» che si può rilevare nelle tradizioni linguistiche e rituali non autorizza a postulare una purezza etnica: ci troviamo di fronte a un’identità giudaica mediterranea plurale e costruita. Anche sul versante sefardita, dunque, cade il mito moderno della «purezza semitica».

EXCURSUS 1 : L’ebraico moderno non coincide con quello biblico parlato dai profeti

Un excursus si rende necessario in merito all’ebraico moderno (ʿivrīt), perché dissolve la narrativa, di stampo apologetico e identitario, secondo cui esso sarebbe la naturale prosecuzione dell’ebraico biblico. Tale affermazione, benché suggestiva, è filologicamente infondata: non esiste alcuna trasmissione organica, ininterrotta e parlata tra la lingua delle Scritture ebraiche dell’Antico Testamento e l’idioma oggi in uso nello Stato d’Israele. L’ebraico moderno non è la continuazione del biblico, bensì un idioma radicalmente nuovo, costruito consapevolmente a partire dal XIX secolo mediante un’operazione di ingegneria linguistica, culturale e ideologica.

Il linguista israeliano Ghilʿad Zuckermann, in uno studio di riferimento («A New Vision for Israeli Hebrew: Theoretical and Practical Implications of Analyzing Israel’s Main Language as a Semi-Engineered Semito-European Hybrid Language», Journal of Modern Jewish Studies 5/1 [2006], 57–71), ha dimostrato che l’ebraico israeliano non va inteso come una “resurrezione” della lingua biblica, ma come una lingua semi-ingegnerizzata, un ibrido semito-europeo nato dall’innesto di radici semitiche su strutture sintattiche, fonologiche e pragmatiche di matrice prevalentemente indoeuropea. Lo yiddish ashkenazita, lingua madre della maggioranza dei pionieri sionisti, agì da contributore primario insieme alle lingue slave, plasmando l’ivrit in modo decisivo.

Gli esempi sono incontrovertibili:

– L’ebraico biblico prediligeva un ordine verbo–soggetto–oggetto diretto (tipologia VSO nella classificazione internazionale delle lingue), mentre l’ebraico moderno ha adottato stabilmente l’ordine soggetto–verbo–oggetto diretto (SVO), tipico delle lingue germaniche e slave.
– Laddove la morfologia classica non conosceva ausiliari, l’ebraico moderno li ha introdotti, per calco indoeuropeo.
– Il lessico contemporaneo abbonda di neologismi presi a prestito o modellati su idiomi europei.
– La pronuncia standardizzata è frutto di un compromesso artificiale (sefardita “idealizzata”), imposto ideologicamente, e non di un’evoluzione fonetica naturale.

Ne deriva che appellarsi a una presunta «continuità» costituisce un artificio retorico. L’ebraico moderno non è la maturazione spontanea dell’idioma biblico, bensì l’esito novecentesco di un progetto di ingegneria linguistica e politica, volto a costruire un’identità nazionale funzionale allo Stato nascente. Pur conservando l’alfabeto tradizionale e un lessico di superficie semitico, esso è, nella sua struttura profonda, una lingua ricombinata: un organismo ibrido in cui un impianto europeo si innesta su un ceppo semitico rimasto silente per secoli. Più che una continuità organica, l’ebraico moderno rappresenta dunque un esperimento deliberato di pianificazione linguistica e simbolica.

In tale orizzonte, il contributo di Ghilʿad Zuckermann si distingue non solo per la lucidità dell’analisi, ma per la libertà con cui essa è formulata. Molti filologi mainstream operano infatti entro sistemi accademici e fondazioni sostenute dall’alta finanza ashkenazita, ragion per cui non possono non condividerne le premesse ideologiche. Zuckermann, sottratto a tali vincoli economici, può osservare il fenomeno con uno sguardo più franco e metodologicamente indipendente, dicendo ciò che altri filologi mainstream non osano, né possono, articolare.

8. Neturei Karta: l’ebraismo contro il sionismo

Dopo aver chiarito la natura ingegnerizzata dell’ebraico moderno, è utile ricordare che esiste,all’interno dell’ebraismo, una corrente che smaschera con radicalità l’inganno sionista. È il movimento dei Neturei Karta («Guardiani della città»), rabbini haredi che, in nome della Torah, rifiuta in blocco lo Stato di Israele, considerandolo non già un adempimento della Torah, ma la sua negazione. Il rabbino Yisroel Dovid Weiss lo ha spiegato senza ambiguità: il sionismo non è fede, ma nazionalismo armato; non è obbedienza a Dio, ma ribellione alla Sua volontà. I profeti avevano annunciato l’esilio come giudizio divino, e vietato il ritorno in massa o la ribellione contro le nazioni ospitanti. Il 1948, al contrario, è stato l’atto politico con cui si è trasformata la religione in un nazionalismo idolatrico, consacrando l’usurpazione e la violenza sotto il vessillo della cosiddetta «stella di Davide». Non si tratta soltanto di una posizione profetica recente. Già nel Talmud babilonese (Ketubot 111a) si legge l’insegnamento dei «tre giuramenti»: Israele non deve ribellarsi alle nazioni, non deve ascendere in massa alla terra promessa, e le nazioni non devono opprimerlo oltre misura. Questa tradizione rabbinica, risalente a secoli prima della fondazione dello Stato moderno, conferma che il rifiuto di una restaurazione politica prima del Messia non è invenzione dei Neturei Karta, ma radicato nella stessa letteratura ebraica.

Weiss denuncia con franchezza l’ipocrisia: i sionisti hanno rubato simboli religiosi per sacralizzare la conquista, imponendo al mondo la falsa equazione «critica a Israele = antisemitismo». Ma, osserva, è l’occupazione stessa a violare la Torah: «Non rubare» e «non uccidere» non possono coesistere con l’espropriazione della terra palestinese e con i massacri periodici a Gaza. La loro voce ribadisce una verità elementare, che la propaganda occulta: ebreo e israeliano non sono sinonimi, e la fedeltà alla Torah non si misura nel servire lo Stato, ma nell’adorare Dio e nel vivere in pace con i popoli tra cui si è dispersi.

Il messaggio dei Neturei Karta è inequivocabile: l’esistenza stessa dello Stato sionista è, per loro, terrorismo istituzionalizzato, fonte di odio e di sangue versato. Il vero scandalo non è che essi parlino con i nemici di Israele, ma che Israele stesso perpetui da circa ottant’anni una ribellione contro Dio, coprendola con la retorica religiosa.

Le parole di Weiss echeggiano come un monito: Israele non è scolpito nella pietra, non è “volontà divina”, ma un progetto recente e destinato a finire. Così come l’apartheid sudafricano crollò sotto il peso della propria menzogna, così anche l’edificio sionista è destinato a dissolversi, perché fondato sulla violenza e non sulla giustizia. La pace non nascerà da un “focolare nazionale ebraico” costruito sul sangue palestinese, ma da un ritorno alla verità biblica: Dio ha proibito agli ebrei di erigersi Stato durante l’esilio, e ha stabilito che la redenzione non passa attraverso i carri armati, ma attraverso il Suo Messia.

I palestinesi sono un popolo mite e amico, non quella nazione crudele e selvaggia che i media occidentali hanno costruito nell’immaginario collettivo. Questa rimane una delle più colossali menzogne della storia contemporanea.
Negli ultimi ottant’anni, la popolazione palestinese è stata vittima di una sistematica pulizia etnica. Si calcolano in 48 milioni i palestinesi cacciati con ferocia dalle loro case, privati delle loro città e dei loro villaggi senza alcuna giustificazione. Migliaia sono morti di sete e di stenti mentre fuggivano dai bombardamenti dei terroristi sionisti.

Queste non sono le parole di un militante dell’intifada o di Hamas – movimento ormai riconosciuto come infiltrato e finanziato dagli stessi apparati del Mossad – bensì la testimonianza di un ebreo ortodosso. Hamas non è che una pedina utile alla strategia di una politica sistematica di terrore. È tuttavia probabile che tale cifra, pronunciata in un contesto emotivamente acceso, rappresenti una forma di iperbole retorica o un lapsus numerico: nessuna fonte storica o statistica conferma una simile stima. Secondo dati ufficiali (UNRWA), i rifugiati palestinesi registrati sono oggi oltre 6 milioni, mentre la diaspora totale comprende circa 14–15 milioni di individui. In ogni caso, il punto centrale della denuncia di Weiss non è la precisione numerica, bensì la condanna morale e spirituale della pulizia etnica compiuta dal sionismo sotto il pretesto della Torah.

Excursus 2 : Le Scuole Bibliche e la Teologia Sistematica come paradigma teologico-pedagogico al servizio del progetto sionista

Il cosiddetto Movimento delle Scuole Bibliche, sorto negli Stati Uniti fra il declinare dell’età vittoriana e il primo lume del Novecento, non può essere compreso quale mero argine reattivo alle istanze della teologia liberale o della critica storica tedesca.  Esso si configura, assai più profondamente, come una vera e propria fucina pedagogica e ideologica nella quale l’evangelicità popolare venne rifusa come metallo incandescente, assoggettata a forme precostituite e normalizzanti, sino a diventare — in modo progressivo e sotterraneo — strumento docile di un disegno che, solo in seguito, avrebbe mostrato la propria convergenza con il sionismo politico moderno: dapprima attraverso l’assunzione del dispensazionalismo quale matrice teologica ordinatrice, e quindi, a partire dalla fine del XIX secolo, mediante l’inserimento entro un più ampio progetto geopolitico di restaurazione territoriale interpretata in chiave filosionista.
Tutto ciò si colloca nel quadro della Seconda Rivoluzione Industriale (1870–1914), un’epoca percorsa da una accelerazione sociale e tecnologica senza precedenti fino allora, segnata da processi di urbanizzazione massiva e da una ridefinizione profonda dei ritmi del vivere civile. L’urgenza produttiva delle metropoli industriali dettò forme nuove anche alla formazione religiosa. Le scuole bibliche nacquero, infatti, da un impulso missionario sincero ma profondamente modellato dal nuovo paradigma industriale: formare rapidamente operai del Vangelo mediante strumenti agili, interdenominazionali, facilmente replicabili, là dove i seminari classici apparivano lenti, farraginosi, inadatti a sostenere la pressione di un mondo che cambiava con velocità inedita. La logica della fabbrica penetrò così nel tessuto ecclesiale: non più la pazienza dell’esegesi e della filologia, ma l’addestramento immediato, seriale, standardizzato.
Ne derivò una generazione di ministri di culto caratterizzata da un crescente analfabetismo in ambito esegetico ma funzionali ai nuovi paradigmi. Essi erano istruiti nelle categorie della teologia sistematica — apprese come un repertorio di formule e griglie dottrinali — ma privi delle competenze linguistiche fondamentali, l’ebraico, l’aramaico e il greco, che costituivano il presupposto indispensabile di ogni teologia biblica autentica. L’impoverimento non fu un accidente, ma un elemento strutturale: l’urgenza della produzione ministeriale sacrificò la profondità della formazione, predisponendo il terreno per una colonizzazione ideologica.
Fu così che, in un breve volgere di anni, il fervore missionario originario venne assorbito da una matrice dispensazionalista sempre più pervasiva. Questa nuova grammatica dottrinale orientò la fisionomia dei Bible Institutes, predisponendo la saldatura con un immaginario restaurazionista cristiano reinterpretato in chiave filosionista e con il sionismo politico. Non si trattò di un fine inscritto ab origine, ma di un processo progressivo di strumentalizzazione: un movimento nato con finalità pastorali fu lentamente ricondotto entro un paradigma teologico-politico che favorì l’integrazione con progetti geopolitici di marca filosionista.
In questo stesso arco di tempo, lo studio delle lingue originali della Scrittura vide un declino inarrestabile. Ciò che per secoli aveva costituito l’ossatura dell’esegesi — l’incontro diretto con l’ebraico, l’aramaico e il greco; l’esegesi storico-grammaticale; la percezione della rivelazione come economia progressiva — venne oscurato da un addestramento pratico che riduceva la Bibbia a un repertorio di versetti funzionali. La Parola, sottratta al suo respiro canonico e cristocentrico, divenne materiale argomentativo, un insieme di loci probantes utilizzati per edificare un sistema dottrinale precostituito. L’esegesi, che nella prassi apostolica contemplava la Scrittura nella sua continuità organica — «cominciando da Mosè e da tutti i Profeti» (Lc 24,27) — degradò a tecnica strumentale, avulsa dalla trama narrativa della redenzione.
Le radici di questo mutamento si erano già delineate nel mondo anglosassone fra il XVIII e il XIX secolo. In Inghilterra, modelli di istruzione ministeriale rapidi erano stati inaugurati da figure come Henry Grattan Guinness (East London Institute for Home and Foreign Missions, 1873) e Charles Haddon Spurgeon (Pastors’ College, 1856). Tuttavia, fu negli Stati Uniti che tali iniziative trovarono il loro sviluppo più compiuto. Il Missionary Training Institute di Albert Benjamin Simpson (New York, 1882) e il Moody Bible Institute di Chicago (1886), sorti nel cuore delle metropoli industriali, si configurarono come centri di addestramento intensivo, dove la formazione pratica sostituiva la formazione filologica.
La fondazione del Bible Institute of Los Angeles (1908) sancì la definitiva istituzionalizzazione del modello: non più la lenta formazione dell’esegeta immerso nelle lingue bibliche, ma la produzione seriale di predicatori duttili, pronti all’impiego immediato, funzionali a un progetto missionario di espansione capillare.
Parallelamente, la teologia sistematica — articolata nelle sue molteplici sezioni (Cristologia, Soteriologia, Pneumatologia, etc.) — si impose come impianto ordinatore, spesso emancipandosi dal radicamento esegetico che avrebbe dovuto sostenerla. Edificata com’era su categorie concettuali filosofiche occidentali, talvolta estranee all’orizzonte semitico e cristocentrico della rivelazione, essa finì per costituire un edificio autoreferenziale, un sistema che sovrastava la Scrittura anziché sottomettersi ad essa.
L’esito fu inevitabile: la Bibbia divenne un mosaico di versetti atomizzati, isolati dal loro contesto e impiegati come pietre funzionali a un impianto dottrinale rigido. Il dispensazionalismo, così consolidato, trovò la propria espressione più compiuta nella Scofield Reference Bible (1909), dopo la preparazione dottrinale fornita dalle Niagara Conferences (1875–97). In essa la Scrittura cessò di essere contemplata come tessuto organico della storia della redenzione per essere smembrata in frammenti atomizzati e ricomposta in un disegno dottrinale rigido. I versetti, così isolati, furono trasformati in pietre funzionali a un edificio concettuale estraneo al canone stesso, trasformandosi in materiale da costruzione ideologico.
L’intero processo — dalla formazione industrializzata dei predicatori all’adozione di un paradigma dottrinale rigido, dalla marginalizzazione della filologia all’assorbimento del fervore missionario entro un immaginario filosionista — costituì la piattaforma attraverso cui il Movimento delle Scuole Bibliche accompagnò, preparò e in parte rese possibile la saldatura fra protestantesimo evangelicale e sionismo politico moderno.

LA LINEA BIBLICA (apostoli → Antiochia)
L’altra grande traiettoria ermeneutica — quella che retrospettivamente possiamo designare come «teologia biblica» — affonda le sue radici nella prassi viva della Chiesa apostolica. Essa scaturisce dall’ascolto dell’evento rivelativo e dalla rilettura delle Scritture alla luce del Cristo risorto: i discepoli, sulla via di Emmaus, confessarono di sentirsi ardere il cuore quando Gesù, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano» (Lc 24,27). Non si trattava di un esercizio speculativo, ma del riconoscimento del disegno unitario della redenzione, inscritto nel canone e compiuto nella persona del Messia.
I Bereani, esaminando quotidianamente le Scritture per verificare l’annuncio apostolico (At 17,11), offrirono il paradigma di una comunità che assume la Parola come criterio ultimo di discernimento. E lo stesso Paolo, nel trasmettere il kērygma, lo consegnò come nucleo canonico e indissolubile: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture» (1Cor 15,3–4). Similmente, Filippo, accostandosi all’eunuco etiope, partendo da Isaia 53, annunciò Gesù (At 8,35), mostrando che ogni tessuto profetico trovava la sua tensione teleologica nel Servo sofferente. Al vertice di questa ermeneutica si colloca il Logos incarnato: «Dio nessuno l’ha mai visto; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, egli lo ha narrato» (ἐξηγήσατο, exēgēsato, Gv 1,18). Il verbo, da cui deriva la parola «esegesi», dichiara che Cristo non solo ha rivelato il Padre, ma è egli stesso divenuto l’esegesi vivente di Dio (ipse exegesis Patris factus est). Non è qui inaugurato un metodo umano, ma la fondazione ontologica di ogni interpretazione: la Parola fatta carne è la chiave ermeneutica dell’intero canone.
Tale postura — storica, esegetica, cristocentrica — fu custodita e affinata dalla scuola di Antiochia (Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia, Giovanni Crisostomo), che oppose al simbolismo allegorico alessandrino un metodo ancorato alla historía e alla θεωρία (theōría). Quest’ultima, lungi dall’essere mera “teoria” in senso moderno, designava la capacità di scorgere nel dato storico il rimando tipologico a Cristo, senza dissolvere la concretezza degli eventi. Si trattava di un approccio pienamente fedele all’orizzonte semitico delle Scritture: la rivelazione come economia progressiva della salvezza, che attraversa i secoli senza mai annullare la storia nella figura né la realtà nel simbolo.
Questa linea apostolica e antiochena mantiene una sorprendente attualità: di fronte al riemergere, in talune correnti evangeliche contemporanee — pentecostali, «chiese dei fratellli» e altre — della tentazione di riproporre sotto nuove forme l’antico allegorismo, dissolvendo la trama storica della Scrittura in astrazioni simboliche o visioni sganciate dal Cristo incarnato, essa offre un modello di sobrietà e fedeltà canonica.
Il filo di tale tradizione giunse a ricevere una consacrazione accademica nella celebre lezione inaugurale di Johann Philipp Gabler ad Altdorf (1787), che sancì l’istituzionalizzazione moderna della teologia biblica. Sebbene collocata nel quadro illuminista, tale lezione non spezzò il filo che dagli apostoli ad Antiochia aveva custodito lo spirito vivo di un’ermeneutica centrata sulla rivelazione progressiva e sul primato del Cristo risorto.

LA DERIVA SISTEMATICA (Occidente filosofico)
Un secondo binario, parallelo ma distinto da quello biblico-apostolico, affondò le proprie radici nella matrice filosofica greco-latina. In alcune stagioni storiche tale tradizione seppe porsi come ancilla evangelii — si pensi alle grandi sintesi agostiniana e tomista —, ma progressivamente essa incanalò la fede cristiana entro griglie concettuali unitarie, che finirono per condizionare la lettura stessa della Scrittura.
Già nella patristica, con Origene e Agostino, si intravidero i primi tentativi di sistema, nei quali la Parola di Dio veniva interpretata attraverso categorie filosofiche. La Scolastica medievale, con Pietro Lombardo e soprattutto con Tommaso d’Aquino, raggiunse l’apogeo di questa logica ordinatrice, trasformando la teologia in regina scientiarum e facendo della Summa Theologica un modello paradigmatico di sistematizzazione. Non a caso Martin Lutero, con pungente ironia, osservò: «Cosa sono le Università se non luoghi dove si insegna ai giovani la gloria greca?»; e con un’immagine icastica descrisse il passaggio da Abelardo a Tommaso: «Abelardo bollì l’uovo e Tommaso lo sgusciò».
Ciò che era nato come ancella del Vangelo degenerò, soprattutto in età tardo-moderna, in costruzioni autoreferenziali. La forma concettuale, da strumento, divenne fine; lo schema logico sopravanzò la storia della rivelazione; e il canone biblico fu piegato a disegni estranei alla sua natura viva ed esegetica. Le interminabili controversie tra calvinismo e arminianismo ne sono un esempio eloquente: due sistemi opposti, ma ugualmente prigionieri della dialettica, piegarono spesso la Scrittura a mosaici precostituiti, anziché lasciarsi condurre dalla tensione viva del testo. Ne derivò un’alternativa artificiosa: «se si è predestinati, la salvezza non può perdersi; se si perde la salvezza, non si è predestinati». La rivelazione, invece, attesta simultaneamente l’elezione sovrana di Dio e la responsabilità del credente, mantenendo insieme polarità che nessuna sintesi filosofica può sciogliere senza impoverire l’evangelo.
Così la teologia sistematica, quando si emancipa dalla sua radice esegetica e cristocentrica, si tramuta in ochýrōma (fortezza), eretta non per servire la Parola, ma per sostituirvisi. Essa sopravvive come strumento pedagogico e come difesa confessionale, ma a prezzo di irrigidirsi in costruzione concettuale che rischia di oscurare la trama biblico-narrativa. Non a caso le diverse denominazioni, pur divise e talvolta in reciproco conflitto, hanno spesso fatto della teologia sistematica il proprio strumento ordinativo, con l’esito di innalzare bastioni dottrinali che, nella loro autoreferenzialità, si configurano come «fortezze» contrarie alla conoscenza di Dio (2Cor 10,4–5).
Il problema non risiede, dunque, nella teologia sistematica in quanto tale, bensì nella sua postura rispetto alla rivelazione. Quando essa rimane ancilla Scripturae, costantemente riformata alla luce dell’evangelo, può offrire chiarezza e coerenza, preservando la fede della Chiesa. Ma quando diviene autosufficiente, idolatrando la propria coerenza interna, cade nella stessa hybris che generò i sistemi eterodossi. Ad esempio, i manuali mormoni e le costruzioni dei Testimoni di Geova, sebbene formalmente parte della “teologia sistematica”, non sono che apparati dogmatici chiusi, incapaci di lasciarsi giudicare dalla Scrittura. Queste sì sono fortezze da demolire: non per il loro ordine formale, ma per la loro emancipazione idolatrica dalla rivelazione di Dio in Cristo.

DISCERNIMENTO, ESITO E AMMONIMENTO (2Cor 10,3–5)
L’apostolo Paolo non ricorre a metafore ornamentali né a immagini devote, ma impiega un lessico tecnico e militare, capace di svelare la natura profonda del conflitto teologico e di smascherare le costruzioni concettuali che, invece di sottomettersi alla rivelazione, si erigono contro di essa. I λογισμοί (logismoí) sono i ragionamenti, i sofismi, le elucubrazioni che pretendono di misurare la Parola con i criteri della ragione naturale; gli ὀχυρώματα (ochyrómata) sono le fortezze concettuali, bastioni apparentemente inespugnabili; l’ὕψωμα (hýpsōma) è l’altezza superba che trasforma la ragione in idolo; il νόημα (nóēma) indica la disposizione interiore della mente-cuore, che dev’essere resa «prigioniera all’ubbidienza di Cristo».
In questa prospettiva, la teologia biblica si configura come autentico ministero di liberazione: la sua natura le impedisce di accumulare mattoni per costruire fortezze dottrinali, ma — mediante le lingue originali e l’esegesi storico-grammaticale — abbatte i logismoí e sottomette il nóēma alla signoria del Cristo risorto. È un atto di ubbidienza ermeneutica, che riconosce Cristo quale criterio canonico e telos ultimo di ogni parola della Scrittura.
Nonostante tutto, la teologia sistematica, se rimane ancilla Scripturae, può assolvere una funzione legittima: ordinare, chiarire, custodire la fede. Ma per sua natura si presta ad essere autonomizzata, divenendo fine a se stessa, rischiando così di produrre quelle «fortezze» che Paolo dichiara dover essere demolite. Non è la forma sistematica che di per sé genera deviazione, bensì la pretesa di rendere autosufficiente il proprio edificio concettuale, piegando la Parola al servizio della logica umana. In tal caso, essa si tramuta in «altezza» (hýpsōma) idolatrica, eretta non più al servizio di Cristo, ma come bastione umano contrapposto al Vangelo.
In tale orizzonte si comprendono anche le «dottrine di demoni» (1Tm 4,1), sempre al plurale: non semplici errori puntuali, bensì costruzioni ideologiche sistematiche, capaci di dar vita a interi apparati contro la conoscenza di Dio. Al contrario, quando il Nuovo Testamento parla della sana teologia, ricorre sempre al singolare — ἡ διδασκαλία (hē didaskalía): «la dottrina», «sana», «pura», «secondo pietà» — a significare l’unità organica della verità, che si raccoglie nella persona e nell’opera di Cristo.
Il compito ineludibile della Chiesa rimane dunque quello di abbattere ogni ragionamento che si innalza contro il Vangelo, custodendo una teologia che non erige bastioni, ma che «con le armi della nostra guerra, che non sono carnali, rimane potente in Dio per la demolizione delle fortezze» (2Cor 10,3–5). Così intesa, la teologia biblica non si riduce a disciplina accademica, ma si manifesta come atto di fedeltà ecclesiale: non architettura di astrazioni, bensì obbedienza del pensiero all’economia della salvezza compiuta in Cristo Gesù.

DALLE SCUOLE BIBLICHE AL DISPENSAZIONALISMO ORGANIZZATO
Solo una teologia radicata nella Parola, e non nei sistemi della ragione, può dunque resistere alla tentazione delle «fortezze». Ma la storia moderna mostra quanto spesso tale ammonimento sia stato disatteso. Le stesse strutture nate per custodire il Vangelo finiscono per edificare apparati concettuali e istituzionali che, anziché servire la Scrittura, la piegarono a fini estranei. In questa traiettoria si colloca la fondazione del Dallas Theological Seminary (1924), che consacrò e consolidò un paradigma destinato a segnare in profondità l’evangelismo contemporaneo. Tale impianto fu elevato a canone vincolante per intere generazioni di predicatori, i quali finirono per replicare meccanicamente un sistema prefabbricato invece di scavare nelle fondamenta vive delle Scritture. Come hanno mostrato Timothy E. Gloege (Guaranteed Pure: The Moody Bible Institute, Business, and the Making of Modern Evangelicalism, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 2015) e Adam Laats (Fundamentalist U: Keeping the Faith in American Higher Education, New York, Oxford University Press, 2018), tale costruzione teologica si accompagnò a logiche organizzative ed economiche d’impronta imprenditoriale, capaci di produrre una vera e propria «evangelicità aziendale».

Parallelamente, il ritorno d’Israele si impose come télos profetico. Già nel 1891 William E. Blackstone, legato a circuiti banchieri ashkenaziti, consegnò al presidente statunitense Benjamin Harrison il celebre Memorial, che invocava «Palestine for the Jews» e raccolse l’adesione di esponenti politici ed economici di primo piano. Quel documento inaugurò un filone di restaurazionismo ebraico-escatologico che, con la Dichiarazione Balfour (1917) e ancor più con la proclamazione dello Stato d’Israele (1948), si sarebbe saldato al sionismo politico, generando un connubio destinato a dominare la teologia evangelica del Novecento. Come hanno mostrato Paul Charles Merkley (The Politics of Christian Zionism, 1891–1948, London, Frank Cass, 1998) e Timothy P. Weber (On the Road to Armageddon: How Evangelicals Became Israel’s Best Friend, Grand Rapids, Baker Academic, 2004), l’intreccio fra escatologia evangelica e progetto sionista non fu marginale, bensì costitutivo di una nuova cultura teologica. Più recentemente, Daniel G. Hummel (The Rise and Fall of Dispensationalism: How the Evangelical Battle over the End Times Shaped a Nation, Grand Rapids, Eerdmans, 2023) ha dimostrato come il dispensazionalismo abbia agito non soltanto come schema dottrinale, ma come vero e proprio dispositivo identitario e politico.

Nella stessa orbita ideologico-pedagogica si colloca l’irrompere del movimento pentecostale. La Bethel Bible School di Topeka (Kansas), diretta da Charles F. Parham, fu il teatro dell’esperienza glossolalica di Agnes Ozman nella notte tra l’1 e il 2 gennaio 1901, evento tradizionalmente assunto come aurora del pentecostalismo moderno. Al di là delle ombre che in seguito avvolsero la figura di Parham, la genealogia di quell’esperienza e il ruolo formativo del contesto scolastico restano storicamente incontestabili. È tuttavia attestato che il pentecostalismo primitivo non fu un blocco monolitico: in varie aree — dall’Europa mediterranea all’America Latina — non poche correnti mantennero una diffidenza verso lo schema dispensazionalista, preferendo una lettura esegetica e cristocentrica della Scrittura. Fu solo in una fase successiva, anche tramite figure come Donald Gee ed Henry H. Ness e grazie all’influsso delle scuole bibliche americane (con il circuito che aveva in Dallas uno snodo di potere), che il dispensazionalismo penetrò progressivamente nel corpo pentecostale fino a diventarne la cornice dominante.

Quando poi la Talbot School of Theology (1952) e altri centri della “seconda generazione” consolidarono l’offerta formativa, l’intero sistema parlava ormai con voce univoca: un’escatologia che trasformava Israele contemporaneo in indicatore cronologico — «l’orologio di Dio» — e la cartografia mediorientale in palinsesto delle attese ecclesiali, fino a innalzare lo Stato sionista a segno quasi sacrale, surrogato idolatrico che detronizzava il Cristo quale unico compimento delle promesse divine.

Le scuole bibliche non furono dunque semplici fucine di evangelisti popolari, ma officine ideologiche: laboratori in cui la trama viva della fede come filo rosso che unisce il popolo dei discepoli dall’Eden alla Nuova Gerusalemme, veniva smontata e ricomposta in un mosaico artificiale, sostituendo alla speranza cristocentrica del Vangelo eterno (Ap 14,6) un’escatologia coloniale, funzionale all’imperialismo anglo-americano e alla legittimazione religiosa dello Stato d’Israele. Un paradigma che ha segnato in profondità il Novecento e che ancora riverbera nel XXI secolo, perpetuando l’idolatria di un Israele carnale innalzato al posto del Cristo, l’unico Alfa e Omega della storia (Ap 22,13).

Conclusione

Alla luce della Bibbia, della storia, della linguistica e della genetica, risulta ormai innegabile che né gli Ashkenaziti né i Sefarditi possano essere considerati portatori di una discendenza semitica pura e lineare.

Gli Ashkenaziti non lo sono biblicamente, poiché Ashkenaz discende da Jafet e non da Sem (Genesi 10,2-3); non lo sono storicamente, perché la loro formazione affonda nelle conversioni khazare e caucasiche; non lo sono linguisticamente, giacché la loro lingua materna, lo yiddish, appartiene al gruppo germanico occidentale e presenta profonde stratificazioni slave; non lo sono geneticamente, poiché circa l’80% delle loro linee materne è di origine europea.

I Sefarditi, a loro volta, non possono vantare alcuna “purezza semitica”: la loro identità si forgiò nel crogiolo mediterraneo e nordafricano, attraverso processi di giudaizzazione di popolazioni iberiche, arabe e berbere, con un apporto palestinese del tutto marginale. La loro lingua storica, il giudeo-spagnolo, è una varietà romanza intrisa di calchi arabi e berberi; la loro onomastica e la loro prosopografia attestano radici ibride; la loro stessa identità fu definita, più che dal sangue, dal rito.

Un ulteriore riscontro linguistico conferma tale quadro: lo yiddish e il giudeo-spagnolo, pur scritti in caratteri ebraici, non appartengono alla famiglia semitica (il primo è una lingua germanica occidentale, il secondo romanza). Persino l’ebraico moderno, rifondato in età contemporanea, non coincide con l’ebraico biblico: esso è una ricostruzione artificiale su base semitica, profondamente ibridata da innesti europei — soprattutto yiddish — tanto nel lessico quanto nelle strutture sintattiche. Lo ha dimostrato in maniera sistematica Ghilʿad Zuckermann, sia nell’articolo A New Vision for Israeli Hebrew («Journal of Modern Jewish Studies» 5/1 [2006], pp. 57–71), sia nella monografia Language Contact and Lexical Enrichment in Israeli Hebrew (Palgrave Macmillan, Basingstoke–New York, 2003). Tale distinzione mostra con chiarezza che l’uso dell’alfabeto non fonda la genealogia, e che la continuità evocata è, in gran parte, una costruzione ideologica moderna.

Ne deriva che l’etichetta «semitico», applicata indistintamente all’ebraismo moderno, non ha alcun fondamento oggettivo: essa è un costrutto illuminista, successivamente strumentalizzato tanto dagli antisemiti ottocenteschi quanto dai teorici sionisti.

Il paradosso che emerge è radicale: gli israeliani di oggi non sono riconducibili agli israeliti della Bibbia discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe.

Il Nuovo Testamento conosceva già fenomeni analoghi. L’Apocalisse ricorda che, nel I secolo, a Smirne e a Filadelfia esistevano sinagoghe che «dicevano di essere Giudei e non lo erano» (Apocalisse 2,9; 3,9). Non si tratta di un’immagine allegorica, ma di comunità storicamente esistenti, che rivendicavano pubblicamente lo status giudaico ed esercitavano pressioni e denunce contro i cristiani presso le autorità. Giovanni le definisce «sinagoga di Satana» non per negare la loro identità etnica, ma per denunciare il tradimento della vocazione d’Israele: opponendosi al Messia, Gesù (Giovanni 1,11; 5,43; 12:37-38; Matteo 21,42; Atti 3,13-15; 7,52; Romani 9,31-32; 1Tessalonicesi 2,14-15), esse si ponevano al servizio di Satana, l’accusatore, divenendo strumenti di persecuzione.

Allo stesso modo, lo Stato di Israele odierno, governato da élite ashkenazite e sostenuto da minoranze sefardite, tradisce l’eredità biblica che pretende di incarnare, opprimendo e marginalizzando l’unico popolo che può ancora dirsi autenticamente semita in senso linguistico e storico: i palestinesi. Qui risiede il paradosso estremo: chi si proclama erede di Sem, brandendo l’accusa di antisemitismo come arma retorica contro ogni dissenso, esercita in realtà un antisemitismo strutturale contro i palestinesi, un popolo arabofono semitico. È un capovolgimento che la filologia e la storia smascherano con chiarezza: l’Israele moderno usa il termine «antisemitismo» per proteggere un’identità che non è semitica in senso proprio, mentre pratica la persecuzione contro coloro che lo sono. Pertanto, l’epicentro dell’antisemitismo contemporaneo non è più a Berlino o a Varsavia, ma sembra essersi spostato a Tel Aviv.

È in questo quadro che va smascherato uno dei versetti più abusati dal sionismo:

«Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà» (Genesi 12,3).

Secondo la lettura sionista, tale promessa costituirebbe un lasciapassare eterno e incondizionato allo Stato moderno d’Israele, pena la maledizione divina. Ma l’esegesi biblica rivela tutt’altro: il destinatario è Abramo e la sua discendenza in Cristo (Galati 3,16), non Israele etnico in quanto tale. Paolo lo afferma senza ambiguità: «Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Galati 3,29). La benedizione non riguarda dunque uno Stato contemporaneo, ma il popolo della fede, l’«Israele di Dio» (Galati 6,16).

Non solo. Lo stesso sionismo evangelico ha costruito la propria teologia politica su un duplice fraintendimento. Da un lato, interpreta Ezechiele 37 come annuncio del 1948, quando invece il contesto mostra che l’oracolo riguarda la restaurazione post-esilica e trova compimento messianico nell’unità del popolo di Dio sotto Cristo, unico Pastore (Giovanni 10,16; Efesini 2,11-22 e 2Corinzi 6,16 che applica Ezechiele 37,27 alla comunità cristiana).

Dall’altro, legge Sofonia 3,9 come profezia della rinascita dell’ebraico moderno, mentre il testo parla della purificazione delle labbra dei popoli (Ebr. śāp̄â berûrâ) perché «invochino tutti il nome del Signore». Il soggetto non è Israele etnico, ma le genti; l’effetto non è il ritorno di un idioma nazionale, bensì l’adorazione universale del Dio vivente. Sul piano storico-linguistico, inoltre, l’ebraico moderno non è affatto il recupero organico dell’ebraico biblico, ma — come dimostrato nell’Excursus 1 — una lingua nuova, ingegnerizzata nel XIX secolo, profondamente ibrida. Ne consegue che la tesi cardine del sionismo evangelico — Stato d’Israele e rinascita linguistica come adempimenti profetici — crolla su base esegetica e storica: Ezechiele non autorizza un etnopoliticismo moderno; Sofonia non annuncia la filologia ottocentesca di Ben-Yehuda; e il Nuovo Testamento identifica l’erede di Abramo non con una nazione, ma con Cristo e il popolo dei suoi discepoli «in fede» (sia quelli prima della sua venuta che dopo).

I principali promotori internazionali di questa lettura deformata e deformante — Billy Graham, John F. Walvoord, J. Dwight Pentecost, Charles Caldwell Ryrie, Hal Lindsey, Tim LaHaye, Arnold Fruchetenbaum, Tim Sigler, Roger Liebi, Mottel Baleston, Amir Tsarfati, spesso legati a circuiti massonici e cabalistici — hanno diffuso a livello globale una visione escatologica falsata, anti-biblica e persino anti-cristiana. Essa si è propagata attraverso una rete di Istituti Biblici e Facoltà teologiche[1], che hanno trasformato tale paradigma in un vero e proprio canone formativo, standardizzando generazioni di predicatori a confondere lo Stato moderno d’Israele con il popolo dei discepoli redento di Dio (Romani 9,6-8).

A questa matrice si sono poi aggiunti, in Italia, Marcello Cicchese, Rinaldo Diprose e qualcuno altro, che da questi “maestri” hanno attinto e divulgato nel contesto nazionale, perpetuando lo stesso schema teologico e ideologico.

Un simile uso della Scrittura non è soltanto un abbaglio interpretativo: è un capovolgimento idolatrico, che riveste di sacralità un progetto politico. Ma la sacra Scrittura ammonisce: Dio non si lascia beffare. Il seme promesso non è etnico, ma messianico; e solo in Cristo tutte le nazioni troveranno la benedizione (Genesi 12,3; Galati 3,16.29). Dio non ha rigettato il Suo popolo, ossia il vero Israele che non coincide con un’etnia né con uno Stato, bensì con la comunità dei discepoli: l’«Israele di Dio» (Galati 6,16), formato da uomini e donne di ogni lingua, nazione e tribù (Galati 3,28; Apocalisse 5,9), già a partire dall’Eden con Abele (Ebrei 11,4), ben prima della nascita di Giacobbe, il primo “Israelita” (Abramo ed Isacco non erano «Israeliti») da cui discendono gli Israeliti biblici (Genesi 32,28). Questo principio, già sviluppato in altri contributi di questo blog, rimane la chiave ermeneutica imprescindibile per leggere le profezie bibliche nella corretta chiave cristocentrica (Luca 24,27) e per liberarle dalla loro deformazione politica, ideologica e anticristiana che, purtroppo, perdura da troppi secoli.

Infatti, fratelli, voi siete diventati imitatori delle chiese di Dio che sono in Cristo Gesù nella Giudea; poiché anche voi avete sofferto da parte dei vostri connazionali le stesse tribolazioni che quelle chiese hanno sofferto da parte dei Giudei, i quali hanno fatto morire il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato anche noi, non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impedendoci di parlare ai pagani perché siano salvati. Così colmano sempre la misura dei loro peccati. Ma l’ira li ha finalmente raggiunti (1 Tessalonicesi 2,14-16).

  1. Vedi Excursus 2 ↩︎

Nota dell’autore
Questo studio non nasce da militanza politica, ma da un’urgenza interiore di chiarezza, fedeltà biblica e libertà intellettuale. L’ho scritto come cristiano, come studioso e come uomo di coscienza, nella convinzione che il compito del ricercatore sia quello di distinguere tra rivelazione e ideologia, tra fede e potere.
Ogni popolo merita rispetto, inclusi gli ebrei fedeli alla Torah e i palestinesi privati della voce. Ma proprio per questo è necessario denunciare ogni uso idolatrico della memoria e ogni strumentalizzazione della Scrittura a fini geopolitici.
Se questo scritto farà discutere, spero almeno che lo faccia per le sue argomentazioni, e non per fraintendimenti indotti o pregiudizi ideologici.
La verità non ha paura della critica, solo della manipolazione.

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Un commento

  1. Complimenti, desidero da sempre avere in casa l Enciclopedia Britannica, conosciuta al tempo universitario nella biblioteca della mia facoltà. Qui ne riporti un ampia parte molto esaustiva. Grazie.

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